
di Aurora Mandelli (vanityfair.it, 22 aprile 2025)
È un pendolo che oscilla tra l’ironia e l’ipocrisia la nuova disputa fashion che ha scosso gli animi della politica internazionale. Il responsabile? Un apparentemente innocuo mini-dress indossato da Karoline Leavitt, portavoce della Casa Bianca dal secondo mandato di Donald Trump, ora al centro del dibattito sulla guerra commerciale dei dazi tra Stati Uniti e Cina per mano di un attento osservatore.
A sollevare la bufera è stato Zhang Zhisheng, console generale della Repubblica Popolare Cinese a Denpasar, in Indonesia, con un post su X. Uno scatto della segretaria di Trump durante una conferenza d’inizio anno in un abito scarlatto dai profili tinti di nero, accompagnato da alcuni screenshot del forum on line Weibo in cui i lavoratori tessili di Mabu, in Cina, dichiarano che proprio quel vestito da lei indossato era stato realizzato nella loro fabbrica. Caption: «Accusare la Cina è business. Comprare la Cina è vita. Il bellissimo pizzo dell’abito è stato riconosciuto da un dipendente di un’azienda cinese come un suo prodotto».
Una rivelazione non da poco, date le dure politiche commerciali protezionistiche dell’amministrazione Trump sul Paese asiatico. In men che non si dica, il post del diplomatico è diventato virale. E la carrellata di commenti è partita per la tangente. «Leavitt critica il Made in China mentre indossa un vestito di fabbricazione cinese, quanta ipocrisia? Classica mossa politica: incolpare la Cina, ma tenere i prodotti a buon mercato» scrive un utente. «Come fa Karoline Leavitt a gestire l’ironia schiacciante di battersi contro il Made in China mentre si pavoneggia in uno splendido abito di fabbricazione cinese sul podio della Casa Bianca?» osserva un altro. Non senza riaccendere i riflettori anche sul merchandising “Make America Great Again” di Donald Trump, secondo alcuni prodotto in Cina a partire dal 2016.
Sul fronte opposto i sostenitori del Maga sono subito accorsi in difesa della funzionaria liquidando le accuse come un’errata identificazione, piuttosto che giocando la classica carta della contraffazione. «I cinesi sono noti per i vestiti contraffatti. È più probabile che abbiano copiato la giacca di un marchio di lusso» suggerisce un utente. Mentre un altro incalza: «Quello che indossa è autentico e non quella scadente imitazione Made in Cina di cui parli. Roba falsa e losca».
Peccato che Zhisheng aveva praticamente l’etichetta a portata di mano, condividendo la conferma schiacciante che l’abito lavorato a maglia con finiture in cristallo proveniva da Self-Portrait. Marchio registrato nel Regno Unito, creato dal designer cino-malese Han Chong ed effettivamente prodotto in Cina. Tra fitting, retorica estetica e armocromia, è chiaro che Karoline Leavitt non abbia passato in rassegna il tag check prima di entrare in conferenza stampa. Ironia della sorte? A maggior ragione, quando si tratta di diplomazia del power dressing una cosa è certa: un abito vale più di mille parole.