La voglia di uccidere gli Inti-Illimani

di Ivan Carozzi (ilpost.it, 28 ottobre 2019)

Durante l’enorme marcia che un paio di giorni fa ha attraversato Santiago del Cile, una comitiva di manifestanti, schierata a decine sopra una gradinata che dominava la folla, ha imbracciato la chitarra e suonato e cantato un brano di Victor Jara. Alla fine tutti hanno alzato la chitarra al cielo, accompagnati dal boato della piazza.viva_chile_lpLa canzone era la lirica, soavissima, nient’affatto bellicosa, eppure capace di scuotere e mobilitare un popolo, El derecho de vivir en paz. Tuttavia, di fronte a quel video apparso sulla mia home di FaceBook, il pensiero non è andato a Victor Jara, ma agli Inti-Illimani, il celebre gruppo musicale figlio della Nueva Canciòn Chilena. In seguito al colpo di Stato di Pinochet, i sei Inti-Illimani (Max Berrù Carrion, José Miguel Camus Vargas, Jorge Coulòn Larrañaga, Horacio Duran Vidal, Horacio Salinas Alvarez, José Seves Sepulvede) si stabilirono in Italia, dove si esibirono, da esuli, un numero incalcolabile di volte. Erano puntualmente invitati alla tv di Stato, nei festival e soprattutto nei festival dell’Unità. Credo di averli perfino visti, da piccolissimo, pur non avendo oggi alcun ricordo cosciente dell’episodio. Nella casa dove sono cresciuto, oltre a qualche album cosmico o progressive, Dalla e Lucio Dalla di Lucio Dalla e i dischi di musica classica che uscivano in edicola per la Fabbri Editore, giravano anche la musica e i dischi degli Inti-Illimani.

Il logo del gruppo e le copertine disegnate dai fratelli Vicente e Antonio Larrea emanavano un grande mistero e hanno costruito dentro di me l’immagine di un continente e dei popoli che lo abitano. E così sabato notte, rientrato in un’altra casa, ho provato l’impulso di riascoltarmi un po’ di Inti-Illimani. Forse anche a causa del vino e di un doppio giro di amari, lentamente ha preso corpo quella sorta di nuova esperienza religiosa che consiste nell’abbandonarsi a una ghirlanda di ascolti su YouTube e nel compulsare i commenti sotto ogni brano, per cercare una traccia d’intimità, di scambio e mutualità con le impressioni e le memorie di individui dei quali ignoro tutto e che, in questo caso, erano cileni o italiani o in generale latinoamericani.

La verità è che mi è capitato non di rado in questi anni di sedermi a riascoltare qualcosa degli Inti-Illimani. Sugli Inti-Illimani oggi pesa un pregiudizio, che si nutre di quell’ironia riservata indistintamente ai prodotti culturali frettolosamente catalogati come folklore o paccottiglia di questo o quel decennio. Sugli Inti-Illimani il pregiudizio è doppio, perché furono il simbolo della stagione dell’impegno, della quale oggi non si sa assolutamente più niente o se ne ha una percezione puramente ironica o la si osserva attraverso la lente banalizzante dell’iconografia, del vintage o della retromania.

Riascolto El aparecido o Ya parte el galgo terrible e appuro l’enorme fascino musicale e artistico di un gruppo. La complessità delle tessiture formate dall’incrocio delle tre chitarre, la profondità epica e arcana dei cori, l’oscillazione costante tra atmosfere di martirio e resurrezione, l’appeal ieratico donato dalla vestizione tradizionale del poncho e dalla disposizione sfalsata o allineata dei componenti sul palco, la solennità che derivava ai sei Inti-Illimani dall’essere investiti dello statuto di esuli e testimoni di una tragedia; il doloroso afflato politico e insieme spirituale, già contenuto nel lemma Inti, che corrisponde al nome del dio del Sole nel popolo Inca. Le ande. Il mondo precolombiano. Gli Inti-Illimani sono una realtà musicale di enorme valore e charme. Eppure sono stati dimenticati. In questi ultimi dieci, quindici anni di musica, in cui si sono avvicendate riscoperte di svariate tradizioni folk, così come il repêchage al tempo stesso colto ed edonistico di vernacoli musicali del Latinoamerica come la cumbia, gli Inti-Illimani non hanno mai ricevuto l’attenzione e il plauso che invece pienamente meritano.

Nel 1977 vennero intervistati per un programma Rai da un giovane Dario Salvatori. Probabilmente Salvatori, come altri giovani consumatori di musica, era all’epoca in cerca di altre sensazioni, di novità. Legittimo. E in effetti da lì a poco arriveranno nel mondo, e anche in Italia, il punk (cioè il fenomeno che in futuro diventerà la trita metafora di ogni rottura musicale ed estetica), la disco music, il reggae e poi la new wave. Eppure Salvatori, nel modo in cui si rivolge agli Inti-Illimani, e in particolare a Jorge Coulòn, e li accusa di accademismo e gli chiede polemicamente perché la loro musica «deve necessariamente essere così brutta, così noiosa», ci mette un supplemento di cattiveria, di crudeltà, del tutto immeritata, tanto che Coulòn è in difficoltà e non sa bene che cosa rispondere. C’era proprio una grande voglia di uccidere gli Inti-Illimani.

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