di Patrizio Ruviglioni (vanityfair.it, 31 marzo 2024)
E no, nonostante i vari avvisi all’ingresso – o forse sono stati messi proprio per questo, per creare aspettative – non sarà mai una scelta come tante, quella di Beyoncé di realizzare un disco country come il nuovo Cowboy Carter. Ok, l’album in questione è la “seconda parte” di Renaissance (2022) – quasi il suo “negativo” fotografico: sulla prima copertina sedeva su un cavallo argentato, ora in una foto identica è su un esemplare bianco, con bandiera degli Stati Uniti e abbigliamento, a modo suo, da rodeo al seguito – ma la presa di posizione è più fragorosa di prima.
Lì cercava di riscoprire le radici black e queer della musica elettronica e da club; ora fa lo stesso, appunto, con il country, dove però termini come “riscoperta” e “riappropriazione” portano dietro significati più complessi e ambiziosi. Non tanto per quanto riguarda la comunità Lgbtqi+, a lungo marginalizzata al suo interno, con pochi episodi rilevanti come, per dire, i Lavender Country, band di culto dei primi anni Settanta, e poi nulla più. Ma perché il country stesso è un genere figlio del blues e quindi, sì, di matrice nera, ma che per una serie di coincidenze, incroci del destino, scelte di mercato e di comunicazione discografica, dal dopoguerra è diventato “di bianchi e per i bianchi”, consolidandosi così, in una specie di circuito autoalimentato.
«È un contesto in cui non mi sono sentita accolta, il disco nasce da qui», ha detto lei raccontando l’ispirazione per l’album, ed è vero: al contrario del jazz o dell’hip hop, il country è legato a un certo tipo di America – intesa come nazione – e alle tradizioni, con dei suoni precisi e una visione del mondo conservatrice. E questo nonostante abbia faticato a restare al passo e ad accettare l’ultimo aggiornamento di sistema, cioè il trapianto delle idee di Trump; tant’è che Taylor Swift, che prima della svolta di oggi era un’artista country, al di là di tutto ha rappresentato un’icona per l’estrema destra prima di essere screditata da teorie del complotto che forse, alla base, hanno proprio il troppo amore.
La marcia della riscoperta del country è già partita da un paio d’anni, per esempio nella figura del cowboy nero, di cui gli afroamericani come lei sono tornati a parlare. Però, ecco, anche per un’amazzone della lotta politica e sociale in chiave pop come Beyoncé non è facile mettere il cappello – letteralmente: i costumi, il suo genere, il suo mondo – lì in mezzo, dire “questa è anche e soprattutto roba nostra”, perché poi la questione è soprattutto nell’anche, lei non crea barriere; ci vogliono studio e visione, più che coraggio. E si tratta anche di una responsabilità: il fatto che sia lei a farlo, in un momento del genere e con un gesto così, ha più eco mediatica, pop, di tutte le lotte di controcultura a lei affini messe insieme. Beyoncé, insomma, di nuovo come guida, ma in un campo difficile.
E però, missione compiuta: Cowboy Carter è un’operazione riuscita – prima che un disco, riuscito – perché non è lei tra fischi, praterie, frontiere e chitarre acustiche, ma una reinvenzione dell’estetica country in base alle coordinate della casa, in maniera coerente e non radicale, dai costumi della cover al racconto “da cantautore” dei testi stessi (che poi ne fanno spesso una questione di radici, come anticipa l’American Requiem di apertura), dai pezzi tradizionali o alle soluzioni che invece sono 100% Beyoncé calati in questo nuovo contesto, come l’apripista Texas Hold ’Em o l’altro affare da novanta, Body Guard.
È anche un disco d’idee chiare e ben sviluppate, di belle canzoni prodotte stra-bene, che fa ballare quando desidera, e non somiglia a niente di ciò che c’è in giro per il suo essere un ibrido così strano, unico. La sensazione, è vero, è di un’astronave che atterra in una cittadina: alla fine non sconvolge niente, ma lo spostamento d’aria si sente, specie dalle nostre parti. Perché il country da Occidente è un qualcosa di più piccolo e stereotipato rispetto alla stessa Beyoncé – per quanto, poi, ci si sbagli: ci sono artisti neri e queer nella scena, anche se pochi ed eretici, e i numeri in America sono sempre impressionanti. Il country, di nuovo, è un lost in translation, per il legame con la sua terra non ha mai sfondato, non è mai stato capito al contrario di tanti altri generi; al contrario di Beyoncé, che è un’icona globale. I rapporti di forza sono ribaltati, l’ingresso di lei nel genere avrebbe potuto creare scompensi, finire male.
Poteva, per esempio, finire con Beyoncé che sfrutta il proprio brand (traducibile in un “Beyoncé che fa cose”) per garantirsi un giro sulla giostra: Beyoncé che fa un disco country è di per sé una notizia, come in parte lo era stato con l’elettronica in Renaissance; potrebbe farlo per ogni sonorità, ci sarebbe di cui parlare. Succede, eh. Drake, tra i vari, è uno che da anni sta usando il proprio nome per legittimare qualsiasi tipo di scelta. E invece Cowboy Carter è enorme e ambizioso, più folto di Renaissance già appunto per le intenzioni, incredibilmente lungo (un’ora e venti, un’enormità oggi) e raffinato, dove il messaggio politico è in primo piano ma comunque mai pedante.
Tecnicamente poi è sopraffino, come testimonia la cover di Blackbird dei Beatles realizzata con armonie vocali e arrangiamenti minimali di cui lei rimane campionessa assoluta. A margine: proprio il fatto che nella tracklist sia stato inserito un pezzo così, arcinoto ovunque ma non propriamente country, la dice lunga sullo stato di salute del genere fuori dagli Stati Uniti, contando che neanche Bob Dylan è un artista country, mentre in America la dinastia è lunga e accreditata. Ma tant’è.
Il punto e la lezione del disco, infatti, sono proprio qui: Cowboy Carter non parla solo all’America, ma al mondo, che con il country ha tutt’altro rapporto. La verità è che di popstar come Beyoncé, al momento, non ce ne sono, appurato che una popstar – a livello di percezione – diventa grande se veicola messaggi che vanno oltre la musica stessa. Con Swift ancora in costruzione (anche se per l’empowerment è ben istradata), Kanye West perso nei suoi deliri d’onnipotenza, Drake che ormai ha annacquato le idee e Kendrick Lamar ancora, forse, limitato al solo hip hop, non ce n’è per nessuno.
E appunto, più che una “riscoperta” delle sue radici nere – che comunque c’è, funziona e ha senso così – Cowboy Carter è un aggiornamento del country in base all’immaginario e allo stile di Beyoncé, più un modo per guardare avanti che uno per riscrivere in maniera corretta la storia. Per il modo personale e, diciamo, non antologico con cui viene sviluppato, il messaggio è quasi intersezionale: questa può diventare la battaglia di chiunque, chiunque può trovare spazio in qualsiasi genere, senza farsi limitare dal passato. Certo, poi, per farlo così bene bisogna essere Beyoncé.