La tirannia dell’oggi pomeriggio

Roberto Speranza via Instagram

di Guia Soncini (linkiesta.it, 23 agosto 2024)

Sisifo trascorreva giornate costruttive e rilassanti in confronto a noialtri che ci ostiniamo a cercare di capire e spiegare cosa succede in un secolo completamente privo di memoria storica, in cui non solo i ventenni – che almeno hanno giustificazioni biologiche – ma anche i miei coetanei sono convinti che il mondo sia cominciato nel momento in cui si sono aperti un profilo social. Certo, ogni crisi offre appigli per approfittarsi della situazione.

E il mio è che, se scrivo «Sisifo» in apertura d’articolo, mi libererò di nove decimi di coloro che avrebbero altrimenti commentato – onde dirmi che scrivo davvero male o che comunque a loro la Ferragni non gliela racconta giusta o che Trump è uno stronzo o che il green pass o che la suocera o che loro lo dicono da prima – e che fuggiranno dicendo «mah, Soncini parla di un amico suo che non conosco, solite conventicole, ah ma se fossi raccomandato anch’io». L’altro ieri è stato diffuso un trailer di Megalopolis, il nuovo film di Francis Ford Coppola, con estratti delle stroncature di cinquant’anni di cinema. Citazioni però introvabili nelle recensioni: l’ha notato un giornalista del New York Magazine, Bilge Ebiri.

Ho passato la serata a sfogliare libri di Pauline Kael, ero certa da qualche parte avesse scritto davvero ciò che citavano, non mi pareva possibile se lo fossero inventato. E invece poi hanno ritirato il trailer scusandosi, e probabilmente è andata come aveva ipotizzato Ebiri dicendo qualcosa che non parla certo solo di quel trailer ma di noialtri sisifi: quel trailer è stato montato, scriveva, da gente che sa che nessuno sa niente, visto che viviamo in un fittizio mondo digitale in cui «mostrare qualsivoglia curiosità circa qualunque cosa del passato è visto come un difetto caratteriale».

Io intanto leggevo interviste fatte trenta e più anni fa alla Kael, in cui diceva che Forrest Gump era l’ovvio approdo del nostro aver cominciato a dire che non serviva essere intelligenti: bastava essere buoni; che negli anni Novanta una Pauline Kael avrebbe avuto vita più facile perché adesso avere una donna per critico non era più una stranezza, ma un posizionamento politico vantaggioso; leggevo cose di trenta e più anni fa che mi dicevano che tutto ciò che il mondo crede stia cambiando oggi ha cominciato a cambiare un secolo fa. Il mondo, ora che la maggioranza è fuggita possiamo dircelo tra noi, non è cominciato quando siamo diventati tutti famosissimi per i nostri cento follower, non è cominciato con l’invenzione del telefono con telecamera, non è neppure cominciato con la tv a colori (anche se la vecchia nostalgica in me sta iniziando a dar ragione a Ugo La Malfa, che la voleva vietare).

Forse vi ricordate di Roberto Speranza. Già ministro della Sanità, ma soprattutto già autore di Perché guariremo, libro sulla pandemia di Covid-19 del quale era programmata l’uscita a ottobre del 2020, mentre il vaccino ancora non c’era e le parole più stampate sui giornali erano «risalita della curva dei contagi». Del libro venne inspiegabilmente sospesa la vendita, con anche una comica coda giudiziaria che ha costretto l’editore Feltrinelli a tenerne per anni le copie in magazzino (se un libro viene sequestrato, in questo mondo immateriale, devi conservare tutte le copie). Liberato e mandato nel mondo da Solferino a gennaio di quest’anno, ha infine venduto millecinquecento copie.

Forte di questa sua posizione di bestsellerista e influencer dei destini della sinistra, Roberto Speranza è andato al congresso dei democratici americani. A fare cosa, chiederete voi che siete del Novecento. Che domanda sciocca: a fotografarsi con la statua di Michael Jordan. Ecco, direte voi: lo vedi che questo tipo specifico di scemenza è nato in questo secolo. Io però non credo che nel secolo scorso i politici fossero tutti dei geni. Certo, in media l’umanità era meno scema, ed eravamo quantitativamente meno come esseri umani – il che aiuta sempre (il sovraffollamento non produce qualità: avete creduto alla balla con cui vi hanno venduto la riviera romagnola).

Sono lì che mi chiedo se quarant’anni fa uno Speranza sarebbe comunque andato a Chicago e noi, senza telefoni che fanno le foto, non l’avremmo visto; o se uno Speranza in quel mondo lì non ci potesse essere. Cerco esempi di esibizionismo risibile, ma tutti quelli ai quali penso mi sembrano dei geni in confronto a questi qua: De Michelis? Ma non scherziamo, un gigante, in confronto a questi qua. Quindi, poiché sono del Novecento e sono per chiedere a quelli che sanno e non ai volontari dell’Internet, non chiedo a un social «ma secondo voi chi era il Roberto Speranza dei tempi dei governi Andreotti», ma telefono a Filippo Ceccarelli, che questa angolazione d’analisi l’ha inventata: il suo Invano ha per sottotitolo Il potere in Italia da De Gasperi a questi qua.

Chiamo Filippo e gli chiedo chi fosse il questo qua di quelli là, e lui mi pitta una situazione che Sisifo era al parco giochi in confronto. Mi dice, tanto per spaventare meglio i lettori, che è venuto a mancare il katéchon, che di certo i miei lettori sapranno essere il potere del contenimento delle tenebre (i miei lettori hanno con le Lettere di San Paolo la familiarità che altri hanno con Byung-chul Han). Che esistevano la prudenza, la cautela, «virtù oggi del tutto sconosciute», perché è venuta meno la preoccupazione del dopo, c’è «un vuoto prospettico dell’ideale di appartenenza», ma soprattutto non ci sono più quelli da una parte che pensano che ci sarà il Sol dell’avvenire e dall’altra che pensano alla vita eterna, e venuto meno l’elemento teologale «non c’è più un domani, se va bene c’è oggi pomeriggio, ma già stasera alle dieci e mezza posso cambiare idea».

Non gli cito Carrie Fisher, vera ideologa di questo secolo con quella battuta di Cartoline dall’inferno secondo cui «La gratificazione istantanea ci mette troppo», ma è ovvio che quella è la questione. Filippo si figura i politici italiani che si svegliano, smanettano un po’ sui social, che si dice oggi, ah, si parla di Kamala, fammi fotografare col cartello “Kamala”, scusa Nancy Pelosi, che possiamo farcelo un selfie, it’s for the Democratic constituency, but the Italian one, the al dente one.

Come si fa a fare un paragone, dice il Cecca, con un secolo in cui il massimo dell’inopportunità era Goria che faceva il gesto delle corna, Leone che cantava Anema e core. Lui parla e io penso che persino la bandana di Berlusconi era una roba da statista rispetto agli autoscatti. Filippo non vuole che sembriamo due che dicono che si stava meglio, però ecco: si stava senza. Si stava senza poter immaginare quasi niente di ciò che succede oggi, quasi niente di questa commedia all’italiana ormai così anabolizzata che il cinema non riesce più a starle dietro.

Mentre scrivo è oggi pomeriggio, e temo che abbia ragione Filippo: per le dieci e mezza ci sarà già un’altra mezza dozzina di buffonate di cui occuparsi, e io sembrerò la zia che borbotta dietro a capricci dimenticati. Sembrerò – l’immagine perfetta me la serve sempre Ceccarelli – Berlinguer quando Craxi va a incontrarlo e poi dice: mah, questo non ha neppure la tv a colori.

In questo mondo in cui Berlinguer diciamo di rimpiangerlo, con la sua camicia a maniche lunghe in spiaggia, mentre ne instagrammiamo foto da un telefono assai più instupidente della tv a colori, vestite con le stesse magliette delle nostre nipoti. Nipoti che almeno sono giustificate dall’età a chiedere il selfie, e almeno lo chiederebbero a Taylor Swift e non a Nancy Pelosi.

Spread the love