La svolta “trumpiana” Zuckerberg

Ph. Jaap Arriens / NurPhoto via Getty Images

di Matteo Flora (wired.it, 13 gennaio 2025)

Negli ultimi anni, Mark Zuckerberg e la sua Meta (ex Facebook) sono stati sinonimo di posizioni progressiste, programmi di inclusione e diversità, e un’adesione — quanto meno di facciata — ai valori dell’Identity Politics. Eppure, nell’arco di poche settimane, abbiamo assistito a un ribaltamento quasi totale delle politiche interne di Meta: dall’abolizione del fact-checking (almeno negli Stati Uniti) al clamoroso taglio dei programmi Dei (Diversity, Equity & Inclusion). Un’inversione di rotta tanto brusca da lasciare interdetti dipendenti, analisti e semplici osservatori.

A prima vista, potrebbe apparire come un mero tentativo di allinearsi alla nuova amministrazione Trump — riconfermata a sorpresa alla Casa Bianca — o una semplice mossa di marketing politico per ingraziarsi il “nuovo” potere. Ma, a ben guardare, la virata di Zuckerberg ha una ragione più profonda e meno ideologica: la necessità di tutelare l’impero Meta dalle severe regole imposte dall’Unione Europea, in particolare tramite il Digital Services Act (Dsa) e il Digital Markets Act (Dma). In sintesi, si potrebbe dire che l’obiettivo finale è ottenere un certo grado di “deresponsabilizzazione” negli Stati Uniti, trasformando quello statunitense in un “rifugio normativo” per aggirare i vincoli (e le multe) imposte dal Vecchio Continente.

La miccia è stata accesa già nel 2024, quando l’Ue ha multato Meta per violazioni Antitrust sotto il cappello del Dma e per questioni di protezione dati (Gdpr). Il 2025 minaccia di essere ancora più pesante: con il Dsa, la Commissione Europea è pronta a imporre sanzioni durissime (fino all’8% del fatturato globale) per le piattaforme che non rispettino obblighi di moderazione, trasparenza e responsabilità sui contenuti. Il recente annuncio di Zuckerberg di voler porre fine al fact-checking negli Stati Uniti ha alimentato le speranze di molti politici europei che, attraverso il Dsa, si possa obbligare Meta a rivedere o sospendere questa scelta. Non a caso, la società di Menlo Park ha confermato che valuterà i propri obblighi legali prima di rendere effettiva questa modifica su scala globale.

Tuttavia, l’intento di Zuckerberg è ormai esplicito: in un intervento di tre ore al Joe Rogan Experience — il podcast più seguito d’America — ha definito la linea dell’Ue una forma di “censura” e ha chiesto apertamente all’amministrazione statunitense di difendere l’industria digitale a Stelle e Strisce dalle normative europee. In altre parole, Zuckerberg auspica una protezione politica di Washington nei confronti di un’Europa considerata troppo invadente e punitiva. Se a qualcuno questo cambio di rotta appare come un’adesione entusiasta ai valori della destra conservatrice, le mosse di Zuckerberg sembrano invece obbedire soprattutto a una logica di realpolitik, volta a salvaguardare gli interessi e il modello di business di Meta.

Il nuovo assetto “trumpiano” consiste nell’eliminazione del fact-checking, prima considerato un simbolo del progressismo dell’azienda ma ora abbandonato per accontentare chi chiede massima libertà d’espressione on line; nella chiusura dei programmi di diversità, equità e inclusione (Dei), decisione che ha destato forte preoccupazione fra i dipendenti, i quali si chiedono se basti il cambio di un presidente negli Stati Uniti per sovvertire da un giorno all’altro politiche aziendali consolidate. Infine, nell’attacco frontale a Joe Biden, accusato di aver “costretto” Meta a censurare contenuti durante la pandemia di Covid-19, con tanto di denunce di pressioni e ingerenze da parte del suo team, che avrebbe perfino “urlato e imprecato” pur d’imporre regole più severe contro la disinformazione sanitaria.

In questo contesto di “riposizionamento a destra”, se da un lato si compiace la nuova vecchia Casa Bianca di Trump, dall’altro si cerca di mettere sotto pressione l’Unione Europea: l’obiettivo è evitare che le sue regole — già di per sé stringenti — costituiscano un vero e proprio cappio normativo capace di strangolare il business di Meta. Dietro questa svolta c’è dunque un ambizioso gioco geopolitico, in cui le tensioni tra Stati Uniti ed Europa rischiano di accentuarsi. Se l’Ue intende far rispettare le sue normative più avanzate su contenuti on line e tutela della privacy, a Menlo Park e dintorni si punta a ottenere una qualche forma di “scudo” dallo stesso governo statunitense.

In questo senso, la reazione di Zuckerberg è solo l’inizio di un potenziale conflitto diplomatico e commerciale. L’Ue, stanca di dover fare i conti con i giganti californiani, allergici a qualsiasi forma di controllo, sembra disposta a usare tutta la leva normativa e sanzionatoria di cui dispone. D’altra parte, gli Stati Uniti — dove le Big Tech svolgono un ruolo cruciale nell’innovazione e nell’economia — non resteranno a guardare mentre le aziende nazionali si ritrovano a pagare multe miliardarie.

L’orizzonte di questa battaglia si allarga inoltre all’AI Act, il regolamento europeo dedicato all’Intelligenza Artificiale, e ad altre misure che Bruxelles sta studiando per governare la cosiddetta “next big thing” tecnologica. È facile prevedere che ogni regolamento europeo incontrerà, d’ora in poi, una resistenza ancora più ostinata da parte di Meta e, con ogni probabilità, del governo statunitense.

Per chi osserva da anni le dinamiche della Silicon Valley, la “svolta trumpiana” di Zuckerberg non suona del tutto inedita. Già in passato, il ceo di Meta aveva assunto posizioni ambigue nei confronti della politica statunitense, dosando le spinte progressiste con la necessità di mantenere aperto il dialogo con la destra. Nondimeno, la rapidità e la radicalità dei recenti cambi di policy (dalla moderazione dei contenuti alle politiche interne di diversità) rivelano quanto sia strategica la ricerca di un’uscita dall’assedio regolamentare.

In definitiva, Zuckerberg ha bisogno di un alleato potente che possa, tramite accordi commerciali o pressioni diplomatiche, limitare l’applicazione più severa del pacchetto di riforme e direttive europee. E chi meglio della presidenza Trump, che sbandiera storicamente la riduzione delle tutele ambientali, sociali e digitali a favore della libera impresa?

La vicenda Zuckerberg-Meta è uno specchio di come il dibattito sulla libertà d’espressione e la responsabilità delle piattaforme non sia più soltanto una questione nazionale, ma un confronto geopolitico che investe i rapporti tra gli Stati Uniti e l’Europa. Da una parte, un’America conservatrice propensa a deregolare per garantire un mercato dinamico e proteggere le sue imprese di bandiera; dall’altra, un’Unione Europea più incline a stabilire regole e confini chiari, cercando di prevenire abusi, disinformazione e violazioni della privacy.

Mentre i dipendenti di Meta si chiedono quanto di ciò che hanno costruito negli ultimi anni verrà smantellato a ogni cambio di presidenza, gli utenti globali — oltre due miliardi di persone — si trovano di fronte a piattaforme potenzialmente più esposte a fake news, discorsi d’odio e manipolazioni politiche. Di fronte a uno scenario così fluido, la sola certezza è che questa partita sia appena iniziata. E che la “svolta trumpiana” di Mark Zuckerberg, lungi dall’essere soltanto un vezzo ideologico, sia l’evidente segnale di un braccio di ferro mondiale su chi deciderà le regole (e le responsabilità) per il futuro del Web.

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