di Giuseppe Luca Scaffidi (ilpost.it, 8 febbraio 2024)
Tra le trenta canzoni presentate durante la 74esima edizione del Festival di Sanremo c’è anche Tuta gold di Mahmood, che cita fin dal titolo uno dei capi d’abbigliamento più presenti nell’immaginario hip-hop, attorno al quale si è creato nel tempo una specie di culto. Decine di canzoni rap italiane uscite negli ultimi anni contengono riferimenti o sono interamente dedicate alle tute.
Tuta di felpa di Gué (2015), Tuta black di Paky e Shiva, Tuta nera di Philip (2019), Tute di Armani di Gaetano Cordaro e Tuta fake di 8blevrai (2023), solo per citarne alcune. In alcuni casi i testi si soffermano con una certa ironia sulle caratteristiche di questi indumenti (il numero di tasche che contengono, il materiale di cui sono composte, il loro costo). In altri, enfatizzano il loro lato più “identitario” e l’importanza che rivestono per l’iconografia di questa sottocultura.
Nel 2018 il rapper casertano Speranza (pseudonimo di Ugo Scicolone) pubblicò per esempio la canzone Givova, che nel titolo richiama l’omonima azienda di abbigliamento sportivo di Scafati, in provincia di Salerno. Speranza ha raccontato in più occasioni che, dal suo punto di vista, indossare tute a buon mercato come quelle prodotte da Givova e da aziende che s’inseriscono in quella stessa fascia di mercato, come per esempio Legea e Zeus, è una questione di “realness”, un termine molto utilizzato nel rap che indica la tendenza a scrivere testi il più possibile aderenti alla realtà. «Cito Zeus, Legea e Givova perché sono realtà che viviamo tutti, qui siamo tutti vestiti così», disse parlando dell’abbigliamento della sua cerchia di amici in un’intervista data a Noisey poco dopo l’uscita della canzone.
Fino a non troppi anni fa, le tute realizzate da marchi come Givova, Legea e Zeus venivano considerate poco adatte a essere indossate nella vita di tutti i giorni: erano diffuse soprattutto al Sud Italia, dove venivano acquistate quasi esclusivamente dalle squadre di calcio dei campionati dilettantistici, che ci cucivano sopra il loro stemma e le utilizzavano come divise. L’affare era molto conveniente, perché consentiva di vestire un’intera squadra di calcio con investimenti contenuti (tuttora il prezzo di queste tute è molto basso: non supera i 20 euro). Il loro utilizzo era confinato quasi esclusivamente alle attività sportive, e vederle addosso a qualcuno al di fuori di quei contesti era molto raro.
Oggi, anche grazie al successo ottenuto da Speranza, queste tute vengono utilizzate frequentemente da molti rapper, in particolare da quelli emergenti. Il caso più famoso è probabilmente quello di Massimo Pericolo (Alessandro Vanetti), che nel 2019 indossò una tuta Zeus nel video di 7 miliardi, il suo primo singolo. I rapper hanno sviluppato un interesse per capi poco costosi ma con un significato simbolico anche in Francia, dove è piuttosto comune che musicisti molto famosi indossino tute Kipsta, Quechua, Kalenji e Artengo, i quattro marchi sportivi di proprietà del gruppo Decathlon.
Questa tendenza viene fatta risalire al 2015 e al rapper marsigliese Jul, che venne soprannominato “Kalenjul” per via del gran numero di tute, zainetti, scarpe e piumini Kalenji (uno dei marchi di Decathlon) che indossava tutti i giorni e anche nei suoi video. Viene solitamente associato alle tute prodotte da Decathlon anche il collettivo hip-hop di Sevran 13 Block: uno dei versi della loro canzone più celebre, Zidane, recita “Toujours en Quechua, taille M Quechua, taille M Kipsta” (“Sempre in quechua, taglia M Quechua, taglia M Kipsta”). I 13 Block giocano spesso sulla loro passione per le tute: nel 2021 Stavo, uno dei membri del gruppo, ha pubblicato un EP di quattro tracce intitolato Kipsta: è composto da quattro canzoni che si chiamano come i quattro marchi sportivi prodotti da Decathlon, ossia: Kipsta, Quechua, Kalenji e Artengo.
I motivi per cui è piuttosto comune sentir parlare di tute nelle canzoni rap sono diversi. Il primo ha a che fare con i temi trattati nei testi, che raccontano spesso storie ambientate in contesti di periferia in cui l’utilizzo quotidiano di questi indumenti rappresenta la normalità. Anche le opere di finzione più amate e citate dagli artisti rap hanno per protagonisti persone che vestono tute: il caso più eclatante è quello de L’odio, film di culto diretto dal regista francese Mathieu Kassovitz e uscito nel 1995.
La critica di moda Morwenna Ferrier ha scritto sul Guardian che, per molti versi, L’odio ha anticipato la moda maschile di oggi, in cui è comune vedere felpe col cappuccio, magliette larghe, tute e altri capi solitamente utilizzati per fare sport. I tre protagonisti Vinz (Vincent Cassel), Hubert (Hubert Koundé) e Saïd (Saïd Taghmaoui) indossano tute per tutta la durata del film. Secondo Ferrier le tute indossate da Vinz, Hubert e Saïd formano «una sorta di “divisa”» e rappresentano un simbolo dello stile di «lusso anti-lusso» che è comune vedere in molte collezioni maschili oggi.
Le tute entrarono a far parte dell’immaginario hip-hop già agli inizi degli anni Ottanta, quando Joseph “Run” Simmons, Darryl “DMC” McDaniels e Jason “Jam Master Jay” Mizell, i tre fondatori del gruppo rap statunitense Run-DMC, iniziarono a indossare in quasi tutte le occasioni tute prodotte dall’azienda tedesca Adidas. Adidas e Run-DMC fecero un accordo di collaborazione nel 1986, quando questi ultimi pubblicarono il singolo My Adidas, dedicata alle Adidas Superstar, una linea di scarpe molto apprezzata dai membri del gruppo.
Adidas aveva presentato la sua prima linea di tute nel 1967 tramite una famosa campagna pubblicitaria con il calciatore tedesco Franz Beckenbauer, ma era riuscita a generare un certo interesse soltanto tra le persone appassionate di sport, e in particolare di corsa, come racconta lo scrittore statunitense James F. Fixx nel libro The Complete Book of Running. I Run-DMC furono il primo gruppo hip-hop a sottoscrivere un accordo commerciale con un grande brand, e contribuirono come pochi altri a sdoganare l’utilizzo delle tute Adidas in ambienti diversi da quelli sportivi, come per esempio quelli dei graffiti, della break dance e del rap.
Gli anni Novanta furono invece caratterizzati dalla rivalità tra Tupac Shakur e Notorius B.I.G. e in quel periodo nell’hip-hop cambiarono molte cose, compreso il modo di vestire: i rapper che erano riusciti a diventare famosi, quelli che “ce l’avevano fatta” partendo dal ghetto, iniziarono a sostituire le tute con abiti sartoriali e piuttosto costosi, soprattutto di marchi italiani, individuando nell’esclusività di quei capi una forma di riscatto sociale. Notorius B.I.G., in particolare, sviluppò una certa passione per i vestiti di Versace: «Penso che Biggie sia stato fantastico, è venuto ai miei show a Parigi diverse volte e ci vedevamo spesso, amavo quello che stava facendo e come stava dando alla gente un modo per conoscere Versace. Penso che molte persone abbiano iniziato a conoscere Versace per merito suo», disse Donatella Versace in un’intervista del 2011 a proposito di quanto Notorius B.I.G. abbia contribuito a sdoganare l’utilizzo di capi d’alta moda nell’hip-hop.
Del resto, ancora oggi le canzoni rap fanno spesso riferimento ai grandi marchi di moda internazionali come Gucci, Fendi, Balenciaga, Burberry, Armani e Louis Vuitton. Tuttavia le tute non passarono di moda neppure in quel periodo, pur perdendo la centralità che avevano avuto negli anni Ottanta. La riacquisirono agli inizi degli anni Duemila nel Regno Unito, dove iniziò a diffondersi il grime, un sottogenere del rap nato a Londra e caratterizzato dall’impiego di basi elettroniche veloci e aggressive. In quel periodo le tute divennero parte integrante dell’estetica grime, che fu consolidata in particolare dalla copertina di Boy in da corner, il primo disco del rapper Dizzee Rascal, in cui quest’ultimo indossa una tuta completamente nera. Da allora quasi tutti i musicisti della scena grime londinese iniziarono a indossare delle tute nere.
Lo fecero non soltanto per il successo ottenuto da Dizzee Rascal, ma anche per un motivo politico: in un articolo pubblicato nel 2016, il giornalista Gabriel Herrera spiegò che allora indossare tute completamente nere era un modo per protestare contro la proliferazione della sorveglianza di massa nel Regno Unito. In quegli anni furono installate moltissime telecamere a circuito chiuso, e una parte dell’opinione pubblica cominciò a considerarle un rischio per la privacy. Tra loro c’erano anche i rapper della scena grime, che studiarono degli stratagemmi per non essere identificati dalle telecamere: il più immediato fu indossare delle tute completamente nere. A tal proposito, in un articolo pubblicato su Fader, il giornalista musicale Dan Hancox ha scritto che «la tuta nera è stata a lungo un’uniforme grime non ufficiale, che rispondeva alla necessità di “muoversi in modo discreto”, affermare un certo grado di privacy e preservare la sicurezza personale in una città piena di occhi (rivali, nemici, poliziotti, telecamere) che osservano i tuoi movimenti, tutte le volte per ragioni sbagliate».
La passione dei rapper britannici per le tute è aumentata ulteriormente alla metà degli anni Duemila per via del successo riscosso dalla cosiddetta “tracksuit mafia” (letteralmente “mafia delle tute”), la moda lanciata dal rapper londinese Skepta (Joseph Junior Adenuga), che agli inizi della sua carriera indossava quasi esclusivamente tute a tinte unite, bianche o nere. Le tute sono tuttora l’elemento distintivo dell’estetica grime londinese, e vengono rivendicate come un simbolo dai maggiori esponenti della scena. Intervistato da Hancox per il libro Inner City Pressure: The Story of Grime (2018), il rapper londinese Novelist ha dichiarato: «chiedermi di togliermi la tuta è come chiedermi di cambiare il colore della mia pelle o qualcosa del genere. Rappresenta ciò che sono: vengo dai margini, e questo è ciò che indosso. Potrei mettere una tuta bianca anche al matrimonio di mia madre».