di Michele Smargiassi («Il Venerdì di Repubblica», 12 aprile 2019)
Chi è quella ragazza col vestito sbracciato a fiori, gli occhiali da sole, la Kodak al collo, ridente ed eccitata come una bambina, appoggiata al parapetto del panfilo Britannia in partenza da Southampton per una crociera? È una regina. È la regina.Elizabeth Alexandra Mary di Windsor, seconda del nome, per grazia di Dio regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, e di Canada, Australia e Nuova Zelanda, capo del Commonwealth, difensore della fede. Ma in quella mattinata radiosa del 1972, sotto la lente di un impertinente paparazzo, è di nuovo Lilibet, la bambina che sussurrava ai cavalli, costretta dalla Storia e dalla genealogia a diventare la sovrana più longeva del mondo (ben tre dei suoi primi ministri, Blair, Cameron e May, sono nati sotto il suo regno), l’icona, il volto, l’emblema stesso della regalità sopravvissuta al terzo millennio.
Il paparazzo si fa chiamare Patrick Lichfield, è un fotografo affermato, ma il suo vero nome è Patrick John conte di Anson, figlio del visconte di Anson e della principessa Anna di Danimarca, ed è il cugino di Elisabetta. Quando aveva sei anni le fece la sua prima foto mentre lei, che ne aveva diciannove, giocava a cricket. Sconveniente: occhiuti funzionari della corte sequestrarono il rullino. È sempre andata così, tra Elisabetta e i fotografi. Il protocollo cercò sempre di proteggerla dai fotografi. Ma lei li ha amati. Apprezzati, frequentati e, diciamolo, volentieri usati. Del resto, come sarebbe stato possibile impedirglielo? I suoi (finora) sessantasette anni di regno combaciano con il trionfo di massa della fotografia. La donna più fotografata del mondo? Potrebbe essere.
Aveva otto mesi quando un serio professionista, Marcus Adams, la fotografò in braccio alla regina madre. Aveva tre anni quando, nel 1929, finì sulla copertina di Time. Il giorno della sua incoronazione la corazzata del fotogiornalismo mondiale, l’agenzia Magnum, schierò tre suoi ammiragli: Eve Arnold, Werner Bischof e nientemeno che Robert Capa. Fu assediata, certo, anche perseguitata dalla fotografia, perfino dolorosamente: fuggiva dai paparazzi Diana quando andò a schiantarsi nel tunnel dell’Alma. Ma sicuramente è stata la vera, grande, consapevole regina dell’era Kodak. La sovrana smaliziata del secolo dell’immagine fotografica. Se queste affermazioni vi lasciano dubbi, un libro di Paola Calvetti, giornalista e scrittrice, ve li toglierà. Elisabetta II. Ritratto di regina (pp. 280, euro 20, Mondadori) è un titolo perfino un po’ reticente per la sua insolita biografia di una sovrana molto meno ingenua nella costruzione della propria immagine di quanto ce la siamo immaginata.
Del resto, la fotografia è stata un affare di famiglia nella corte di Londra. Il trisnonno di Elisabetta, Albert, principe consorte della regina Vittoria, fu un fotoamatore accanito, nonché promotore e patrono della Royal Photographic Society. Il cugino Lichfield non è certo stato l’unico fotografo di sangue blu in giro per Buckingham Palace. Elisabetta ne ebbe uno per cognato: clamoroso fu il matrimonio della ribelle sorella Margaret con Antony Charles Robert Armstrong-Jones, fotografo squattrinato (che scandalo!), un commoner che viveva del suo lavoro (!), fu necessario promuoverlo subito lord Snowdon. Ma poi, la stessa Lilibet fotografava: cominciò con una scatoletta Kodak Brownie che le aveva regalato papà Giorgio VI, il re balbuziente. Scatenando l’ansia dei suoi uffici stampa, grandi fotografi erano di casa a Buckingham Palace. Un maestro del fotoritratto del Novecento, il canadese Yousuf Karsh, fu amico personale di Elisabetta da quando la mise in posa in divisa da ausiliaria dell’esercito, nel 1943, a quando le fece il ritratto ufficiale per il novantesimo compleanno. A Godfrey Argent, fotografo militare e come lei appassionato di sport equestri, permise di realizzare addirittura un intero libro sul suo amore per i cavalli. Ma lo Shakespeare della fotografia elisabettiana fu sicuramente sir Cecil Beaton, snobbissimo arbiter elegantiarum del secolo della moda, il cui stile glitterato aderiva perfettamente al kitsch senza tempo del décor e del guardaroba della sovrana dai tailleur multicolori come una collezione di pennarelli Pantone.
I fotografi ufficiali, e ne ebbe un lungo illustre elenco che include fotostar come Thomas Struth e Annie Leibovitz, adoravano la fotogenia della sua carnagione perlacea e la sua disponibilità come modella. Quando Jane Bown dell’Observer si presentò da sola, Elisabetta le diede una mano a montare treppiedi e riflettori. Il suo collega David Montgomery le chiese di mettersi nella posa che preferiva e la sovrana imperiale, lasciandolo sbalordito, si accoccolò davanti al camino. In realtà, erano i fotografi quelli a disagio. Brian Aris, ad esempio, era stato in Vietnam e in Libano, aveva fotografato l’orrore delle carestie in Africa, ma quella mattina del 1996 trovarsi al cospetto della regina gli fece più paura di qualsiasi fronte di guerra. Pasticciò con l’attrezzatura, la costosa Hasselblad cadde dal treppiede, per fortuna l’assistente Patrick Steel si buttò in tuffo, la afferrò al volo e gliela rimise in mano. Una scena da comiche del muto: infatti Elisabetta II esplose in una fragorosa, imperiale risata. Con riflesso da fotoreporter, Aris scattò. Con sua enorme sorpresa, fu quello il ritratto che la sovrana sceglierà. Una regina ridente, a bocca aperta, una regina che mostra i denti in un ritratto ufficiale non s’era mai vista.
Sei anni dopo, dietro la fotocamera c’era una celebrità: Bryan Adams, rockstar e fotografo. Molto meno in soggezione, non sapeva neppure l’indirizzo del palazzo reale. Quando arrivò si guardò intorno, e come set scelse la stanza degli stivali (ancora infangati dal letame dalle reali scuderie). Il protocollo inorridì. Elisabetta, con sovrana, divertita indulgenza, approvò e autorizzò alla diffusione. Bastano due indizi a fare una prova? Vi sembra ancora così sprovveduta, la regina degli obiettivi?
L’irascibile Filippo, il principe consorte, lui sì che ha detestato i fotoreporter con metodo, costanza e disprezzo: «Fate pure le vostre fottute fotografie» era il suo saluto al plotone di obiettivi. Ma ne ebbe uno per amico, Stirling Henry Nahoum detto Baron, compagno di bevute che rischiò di trascinarlo nei soliti scandali da tabloid. Solo una volta si narra che Elisabetta abbia perso le staffe davanti a un obiettivo. Quello di Annie Leibovitz, superstar della fotografia glamour, che si presentò con uno staff e un set da kolossal, ed ebbe l’ardire di chiederle di togliersi la corona per una posa “meno regale”: «Meno regale? Me lei ha capito chi sono?». Una troupe della Bbc riprese l’uscita furiosa della regina dalla White Drawing Room, ma fu poi costretta a smentire tutto. Il battibecco tra le due regine resta avvolto nel mistero.
Ha saputo far fronte anche agli scatti rubati, agli assedi, ai tranelli. I fotografi inglesi si lamentarono della libertà con cui si concesse ai fotografi italiani durante il suo primo viaggio nel nostro Paese, nel 1951. Ron Case rubò le sue lacrime al funerale del padre, ma John Jochimsen, che se l’era trovata di fronte nel momento in cui ricevette la notizia, a un’occhiata di lei abbassò la fotocamera. Ha voluto gestire la sua immagine nell’epoca dei media. Sconsigliata da Churchill e dall’arcivescovo di Canterbury, volle che le telecamere entrassero a Westminster per la cerimonia dell’incoronazione in mondovisione. Sopportò decine di ore di posa per realizzare i diecimila scatti necessari per il primo ritratto di una regina in ologramma. Ha un account Instagram.
Ma l’immagine clou, quella che riassume la parabola di una monarchia condannata all’anacronismo, non è una fotografia, ci racconta Paola Calvetti. È il fermo immagine di un video della Bbc. Il giorno dei funerali di Lady D, culmine della più drammatica crisi della millenaria istituzione regale britannica. Il momento storico in cui Elisabetta china leggermente il capo di fronte al feretro della “principessa del popolo”. Un passaggio di consegne. La regina che amava la fotografia si inchinava alla principessa che fu amata dalla fotografia fino alla morte.