di Guia Soncini (linkiesta.it, 22 luglio 2024)
Sul mio computer c’è da molti anni una cartellina che si chiama “Mastroianni”, e che non ha a che fare con Marcello Mastroianni ma col concetto di celebrità e la sua relativizzazione diciamo dal Grande fratello in poi. Da quando siamo più o meno tutti famosi, e la fama relativa smentisce ogni legge economica: è una valuta che non vale più niente e che tutti bramano.
La ragione per cui la cartellina si chiama “Mastroianni” è la prima pagina che fece la Repubblica il giorno dopo la morte di Mastroianni, con una foto di lui vestito di bianco sulla spiaggia del Lido, una foto famosissima, tagliata in orizzontale, quindi piazzata sotto la testata, in apertura. Non ebbe lo stesso rilievo sulla prima pagina la morte di Vittorio Gassman (stava sotto una partita minorissima di calcio, chevvergogna), né quella di Paolo Villaggio, per dire altri due italiani che tutti conoscevano. (Quella di Alberto Sordi sì, ma si ricorda meno perché la foto era bruttina). È andata così perché Mastroianni era «Marcello, come here» e gli altri due no? Perché degli altri due non c’era una foto altrettanto splendente che si potesse impaginare in orizzontale? Perché già nel 2000 – quando morì Gassman, quattr’anni dopo Mastroianni – nessuno sapeva più fare i giornali?
Quando morì Prince – nel 2016, a giornali già in coma – la prima pagina de la Repubblica lo mise in un angolino, avendo scelto come fotonotizia (il nome tecnico di ciò di cui in prima pagina si mette la foto grande, nel Paese che qualche decennio fa era noto per il design e ora non sa concepire prime pagine con due foto) l’autoscatto d’una tizia che il giorno prima era morta perché non s’era tolta le cuffie dalle orecchie e aveva attraversato i binari senza accorgersi del treno che arrivava. Forse la mia cartellina sull’inflazione della fama, invece di “Mastroianni”, dovrei chiamarla “Il secolo in cui morire come una scema, ma essendo fotogenica, batte Purple Rain”.
Diversamente da quel che avranno capito fin qui i molti lettori che non sanno leggere (maggioranza e non silenziosa), il punto non è che non esistano più i Mastroianni e i Prince. Il punto è che i Mastroianni e i Prince erano pochi prima e sono pochissimi ora. E con “i Mastroianni e i Prince” non s’intende: quelli con la discriminante del talento. Il talento non c’entra, diversamente da quel che crede chi pensa che l’isteria per i Beatles fosse di qualità diversa dall’isteria per un qualunque famoso di oggi: è che ai tempi dei Beatles non avevi molte alternative allo scrivere capolavori, se volevi diventare famoso. Non è che potessi accendere la telecamera del telefono.
Con “i Mastroianni e i Prince” (e i Beatles e i Villaggio) s’intende: quelli che conosci anche se non li conosci. Quelli che sono cultura popolare. Quelli che non devi consumare per sapere che esistono. Quelli la cui fama è tale che t’arriva anche se provi a scansarli. Le Chiara Ferragni. Le Taylor Swift. (Vi vedo: state per commentare che Taylor Swift sa fare canzoni e concerti e Chiara Ferragni non sa fare niente. Fermatevi, e usate quel tempo per andare a depositare una denuncia nei confronti della vostra maestra elementare che vi ha mandati nel mondo senza insegnarvi a leggere).
La fama assoluta non esiste praticamente più, se non come cascame del Novecento: quanti ne sono rimasti la cui morte potrebbe ragionevolmente aprire la prima pagina? Sophia Loren? Roberto Benigni? Jagger? McCartney? Gente diventata famosa un secolo fa, appunto. Oggi esiste una fama a tempo determinato – per tre quarti d’ora se sei Chiara Ferragni, per tre quarti di minuto se finisci sotto il treno – e una fama su misura, intesa come la anticipava J.G. Ballard nel 1975. Nella privacy della nostra cameretta, scriveva in un romanzo che nell’edizione italiana s’intitola Il condominio, saremo la star d’una saga domestica in continua evoluzione, con genitori, mariti, mogli e figli relegati nel più appropriato ruolo di non protagonisti.
Cioè: tutte le Ferragni in sessantaquattresimo che accendono la telecamera del telefono e ci vendono qualcosa, sia quel qualcosa un bagnoschiuma o le moine del figlio («solo i nostri profili migliori, i dialoghi più sagaci, le nostre espressioni più efficaci filmate coi filtri più donanti»: è sempre Ballard, era sempre cinquant’anni fa, è sempre dopodomani). Gente che conoscono in dettaglio – «nemmeno dentro al cesso possiedo un mio momento» diceva la canzone del 1976 cui ha arrubbato il titolo questa pagina [L’avvelenata, di Francesco Guccini – N.d.C.] – quelli che la seguono, e che è ignota a chiunque non sia fan. Se ti conoscono al punto da averti visto pure al cesso in molti, ma quei molti sono solo quelli del tuo giro, puoi sentirti Liz Taylor? O, al massimo, la bella del ballo scolastico, un ballo scolastico magari da un milione o più partecipanti ma comunque niente che possa far parlare il mondo della tua vita e della tua morte più di quindici secondi?
Rispetto ai tempi di Ballard è successa una cosa: tra tutti i filtri possibili, è andato perso quello marxista. Quando Pete Buttigieg chiede a Bill Maher che cosa ci sia da meravigliarsi se Peter Thiel, che è gay, sta dalla parte di Donald Trump, cioè di quel politico che non ha fatto delle bandiere arcobaleno il suo arredo d’elezione, quando spiega che non è poi così strano che un miliardario gay sia più interessato a sostenere politicamente qualcuno che fa gli interessi dei miliardari che quelli dei gay, sgraniamo gli occhi perché abbiamo rimosso dall’orizzonte l’esistenza delle classi sociali. L’abbiamo talmente rimossa che di recente lo scandale du jour, in Italia, è stato un tizio che è famoso solo se lo seguite su Instagram, e altrimenti non l’avrete mai sentito nominare; un tizio che è andato a dormire gratis in albergo per una notte, perché a casa sua non funzionava l’aria condizionata.
Si chiama Paolo Stella, ma non è lui quello importante: sono le reazioni delle Vongola75 che s’indignano. Riepiloghiamo. Stella è uno che fa quel che fanno quelli che commerciano in like: vive a scrocco. La sua pagina Instagram è fatta di vacanze a scrocco in alberghi che né io né lui potremmo permetterci di frequentare dovendoli pagare, arredi a scrocco che né io né lui potremmo permetterci d’avere in casa dovendoli comprare, vestiti a scrocco che né io né lui potremmo permetterci d’indossare senza sponsor.
Se sei una persona raziocinante la sfogli come si sono sempre sfogliati i rotocalchi con le vite dei ricchi, ma con un elemento di lotta di classe in meno: mica è ricco come i ricchi che guardavamo una volta, Stella; è uno che, come Blanche DuBois, dipende dalla gentilezza degli estranei (urge un rifacimento di Un tram che si chiama desiderio in cui l’influencer ammetta di dipendere dai budget degli sponsor). Se invece sei il pubblico scemo di questo secolo, ti costerni, t’indigni, e commenti sulla pagina dell’albergo che è uno schifo, a quello lì gli regalate la stanza, e noi poveri qui a soffrire. Non so perché, di tutti gli alberghi in cui è stato a scrocco Stella (centinaia l’anno), le vongole abbiano deciso d’indignarsi proprio per la notte milanese (sarà il cambiamento climatico: l’aria condizionata è più bene di prima necessità delle vacanze).
Ma il punto, per quella notte a Milano o per quelle a Ravello o altrove, mi pare un altro. Benedette vongole, il fatto che in cambio della stanza offerta egli debba mettere il tag e quindi voi scopriate che non la paga, quel dettagliuccio lì non vi fa calare l’indignazione? Cioè: i privilegiati sono altri. Quelli che non avete idea stiano facendo qualcosa gratis perché sono abbastanza ben nati, abbastanza di chiara fama, abbastanza ricchi da non mettere il tag. Non è che Liz Taylor taggasse Bulgari: credete fosse perché ai suoi tempi non c’era Instagram? No, pulcini: è perché anche stasera ci sono ristoranti che offriranno la cena a gente ricca e famosa che al massimo si farà una foto col ristoratore, e quando quello la posterà sulla pagina del ristorante col cazzo che la rilancerà come cambio merci. Certo che hai offerto tu, Renzo, ma mica ciò ti vale la mia gratitudine: sei tu a essere onorato d’avermi omaggiato dei capponi.
Anche nel 2024, sebbene dimenticate dall’indignazione a mezzo smartphone, esistono le classi sociali, e in cima non ci sono gli Stella e le Ferragni del mondo: ci sono quelli ricchi davvero. Vi fanno meno impressione solo perché non li avete nel telefono? Siete così ottusi da pensare esista solo ciò cui potete mettere o togliere il cuoricino? Certo, c’è anche la possibilità che il pubblico di questo secolo sia così privo di uso di mondo da pensare che ai ricchi veri nessuno omaggi mai niente, che gli unici omaggi siano quelli col tag, che i ricchi paghino tutto e non ricevano mai doni. Gente che era assente il giorno in cui in classe si leggeva dei capponi di Renzo Tramaglino. E persino il giorno in cui, ormai trent’anni fa, Geri Halliwell apriva davanti a una telecamera l’ennesimo pacco dono, e sospirava: dov’era Estée Lauder quando non potevo permettermi i suoi prodotti?
Finché si poteva studiare eravamo distratti, poi sono arrivati i telefoni con la telecamera, l’illusione di conoscere le vite degli altri (coi filtri migliori), ed eccoci qui: neanche oggi abbiamo fatto la rivoluzione, ma ci siamo belli indignati e abbiamo giurato a un albergo che non ci possiamo comunque permettere che noi non gli daremo i nostri soldi, finché omaggia questi scrocconi che esigiamo si trovino un lavoro vero. Il problema – l’ho già scritto, giacché fate sempre gli stessi errori e mi costringete sempre a scrivere le stesse cose – non è che lavoro dovranno trovarsi le Ferragni del mondo, ma dove metteranno i loro budget gli uffici marketing quando diverrà chiaro che siamo in due, noi categorie di osservatori di Instagram. Siamo divisi tra quelli che guardano la frequentazione del lusso per diletto e quelli che la guardano per indignazione, ma con una cosa in comune: non possiamo comunque permetterci la tariffa piena.
La vera domanda è: quelli che se la possono permettere sono rari quanto lo erano i Mastroianni? Secondo me no. È una delle molte cose su cui tocca rivalutare Silvio Berlusconi: i ristoranti (e gli alberghi) da ricchi sono sempre pieni. E chi li frequenta certo non lo fa perché gliene ha svelato l’esistenza chi commercia in like. La vera domanda è: se la pubblicità è un cascame di quando i nostri genitori avevano bisogno che la tv o un giornale svelassero loro l’esistenza della Coca-Cola, se della pubblicità – su Instagram o altrove – scopriamo che il mondo nuovo può fare a meno, che voragine di disoccupazione si crea a Milano? E, soprattutto: senza più un concetto di fama condivisa né un’idea sensata di lotta di classe, in questi ultimi anni di agonia dei giornali che foto mettiamo in prima pagina? Ci toccheranno solo morti che si autoscattavano in pensioni Miramare con bagno in comune?