
di Jake Kleinman (wired.it, 25 aprile 2025)
In una fattoria isolata ai confini di un impero fascista, un tirapiedi del governo interroga le sue vittime. Con il pretesto di un censimento, è a caccia di immigrati irregolari. Quando ne trova una, una giovane lavoratrice, si avventa su di lei e cerca di costringerla a fare sesso. E al suo rifiuto, diventa violento.
È una scena che può sembrare familiare se si pensa all’America attuale, dove le forze dell’ordine rastrellano gli immigrati (e a volte anche i cittadini statunitensi) con un’impunità inquietante. Ma, in questo caso, la fattoria non si trova negli Stati Uniti e nemmeno sulla Terra. Arriva dalla seconda e ultima stagione di Andor, l’acclamata serie tv ambientata nell’universo di Star Wars che racconta l’ascesa dell’Alleanza ribelle all’ombra dell’Impero galattico.
Se guardare la nuova stagione di Andor vi fa pensare alla deriva fascista in corso negli Stati Uniti, probabilmente è tutt’altro che una coincidenza. Nei quarantasette anni di storia di Star Wars, l’Impero ha incarnato qualsiasi cosa, dagli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam all’antica Roma di Giulio Cesare. Ma se l’antagonista principale del franchise può essere adattato all’infinito in modo da rappresentare il fascismo, con Andor la metafora è indirizzata agli Stati Uniti per la prima volta da quando Disney ha acquistato Lucasfilm per quattro miliardi di dollari.
«L’Impero è allo stesso tempo incredibilmente stabile e incredibilmente flessibile come entità cui appiccicare metafore» afferma Chris Kempshall, storico e autore del libro The History and Politics of Star Wars (Storia e politica di Star Wars). «Noi, il pubblico, capiamo che è malvagio, quindi non c’è bisogno di spiegarcelo. Ma nel tempo i dettagli dell’Impero sono cambiati molto in modo da adattarsi ai cambiamenti nella politica del mondo reale».
Fino ad ora, la politica di Star Wars nell’era Disney era stata priva di mordente; nel Risveglio della forza, i cattivi si vestono e si comportano come dei nazisti generici, una scorciatoia cartoonesca per presentarceli come il male senza nemmeno tentare di dire qualcosa di più profondo sull’imperialismo moderno. In generale, la trilogia sequel è troppo impegnata a lottare con il significato stesso di Star Wars per mandare un messaggio potente sulla politica americana. E quando Disney si è cimentata in imprese narrative più ambiziose, come nel caso di The Acolyte, non è riuscita a svincolarsi dalle richieste aziendali e da un piccolo, rumoroso e tossico fandom determinato a trascinare il franchise a destra sia politicamente sia culturalmente.
Ecco perché Andor rappresenta una rara vittoria per Star Wars. Oltre a essere la cosa migliore partorita dalla saga negli ultimi anni (come hanno sottolineato molti critici), è anche il tentativo più evidente da parte di Lucasfilm di tornare al commento politico pungente che ha definito l’era pre-Disney. Se la prima stagione ha gettato le basi con un attento sviluppo dei personaggi e il world-building, la seconda mantiene le promesse offrendo qualcosa di dolorosamente rilevante soprattutto (ma non solo) per il pubblico statunitense, in un momento in cui molti americani stanno facendo i conti con il fatto che la democrazia che una volta pensavano incrollabile sembra sgretolarsi davanti ai loro occhi.
Nei primi tre episodi della seconda stagione di Andor, disponibili in streaming su Disney+ dal 23 aprile, una delle tante trame intrecciate dello show ci porta a Mina-Rau, un pianeta agricolo all’estremità della galassia, dove alcuni soldati ribelli cercano di spacciarsi per meccanici. Il gruppo comprende Bix (Adria Arjona), una ricercata che si nasconde su Mina-Rau senza avere i documenti necessari per rimanere sul pianeta. Quando un manipolo di soldati imperiali arriva per effettuare un “censimento delle scorte” senza preavviso, Bix è comprensibilmente preoccupata, ma viene rassicurata da un contadino locale.
Nell’episodio successivo, l’agricoltore tradirà i ribelli schierandosi con l’Impero e ricordando a pubblico quanto possa essere difficile fare la cosa giusta al cospetto di un potere autoritario. Per Kempshall, la più grande innovazione di Andor è il modo in cui smaschera il «fascismo della gente comune». Sappiamo tutti che Palaptine è malvagio, ma la serie chiarisce che sono le persone normali che si limitano a svolgere il loro lavoro – compilando scartoffie e occupandosi della sicurezza – a rendere possibile questa malvagità. «Sono quelli che ti sfondano la porta alle tre del mattino o che fanno rispettare le leggi che cambiano», continua Kempshall. «Sono il vero volto dell’Impero. Che sembra normale, banale, noioso e quindi è terrificante».
In generale, Star Wars è abituata a sottolineare l’imperialismo americano sin dai suoi primi giorni. Prima di creare la saga, George Lucas avrebbe dovuto dirigere Apocalypse Now al posto del suo amico Francis Ford Coppola. Una volta abbandonato il progetto a causa degli enormi problemi nello svilupparlo, Lucas ha preso l’ambientazione della guerra del Vietnam e l’ha spostata nello spazio, trasformando i Viet Cong nell’Alleanza ribelle, un esercito di combattenti impegnati nella guerriglia contro un impero genocida e armato fino ai denti. «Nelle prime bozze di quello che sarebbe diventato Star Wars, Lucas era piuttosto esplicito sul fatto che l’Impero doveva rappresentare un’America caduta nel fascismo», racconta Kempshall.
Quando tornò alla saga dopo sedici anni di pausa per dirigere la trilogia prequel, il regista aveva in mente una metafora diversa. L’Episodio I – La minaccia fantasma, uscito nel 1999, un anno prima che George W. Bush diventasse presidente, è un’allegoria di come le democrazie collassino sotto la dittatura e cedano volontariamente il potere a un uomo forte, con parallelismi che vanno da Giulio Cesare a Napoleone Bonaparte (senza contare che l’ossessione di Lucas per i dazi, che all’epoca suscitava sbadigli, potrebbe aver inavvertitamente predetto anche l’attuale guerra commerciale innescata da Trump).
Con La vendetta dei Sith, nel 2005, Lucas ha rivolto la sua attenzione proprio a Bush. Verso la fine del film, un Anakin Skywalker ormai corrotto si rivolge al suo vecchio amico Obi-Wan Kenobi e grida: «Se non sei con me, sei mio nemico», un velato riferimento alla guerra in Iraq che ha immediatamente attirato paragoni con la minaccia lanciata dal presidente americano dopo l’11 settembre: «O siete con noi o siete con i terroristi».
I sequel non convinsero la critica e Lucas si allontanò da Star Wars per qualche decennio, per poi vendere il franchise a Disney. Il rilancio tanto pubblicizzato della società ha ripreso la saga degli Skywalker trent’anni dopo Il ritorno dello Jedi. Ne Il risveglio della forza, quel che resta dell’Impero ha dato vita al Primo ordine, un’organizzazione che – tra bandiere rosse e i leader arrabbiati e urlanti – richiama palesemente il nazismo. Per Kempshall, la ragione di questo spostamento verso una metafora più generica con il nazismo non ha tanto a che fare con la politica quanto con lo Zeitgeist culturale moderno: «Il Vietnam non è più un elemento di paragone della cultura popolare» afferma. «Quindi l’Impero doveva probabilmente evolversi per trasmettere un certo livello di malvagità».
Se questo era certamente vero nel 2015, un anno prima che Donald Trump diventasse presidente, a dieci anni di distanza lo Zeitgeist è cambiato di nuovo. Come negli anni Settanta con Richard Nixon o nei primi anni Duemila con Bush, l’America sta sbandando verso il fascismo. E con un ritorno alla forma perduta, la saga di Star Wars è di nuovo pronta a riflettere la realtà politica.