di Gabriele Fazio (agi.it, 20 aprile 2020)
«Da disagiato sto bene nel disagio. È la rivincita dei disagiati questa. Io scansavo le persone per strada prima, figuriamoci adesso che posso farlo come cittadino modello». Basta chiedere «come stai?» e Saverio Raimondo, comico romano classe 1984, parte a razzo. Le sue partecipazioni a programmi televisivi e radiofonici sono ormai innumerevoli.È una delle nuove punte di diamante della comicità italiana che abbandona lo stile Bagaglino per ispirarsi agli anglosassoni d’Oltreoceano, alla tradizione della stand up comedy esplosa negli Stati Uniti negli anni Settanta, declinata ovviamente in salsa italiana. Un mix esplosivo che fa sorgere immediatamente diverse curiosità, prima fra tutte se questa comicità ha o meno dei limiti che lui sente di dover rispettare, specie in questo periodo particolarmente complesso: «Per quanto mi riguarda trovo che il momento sia un’ottima musa, non solo perché si ha tempo per scrivere e molto da osservare e poi perché effettivamente la comicità nasce dal disagio, specie la comicità satirica. Quindi in una situazione di disagio collettivo, globale, gli spunti sono tanti, si fa fatica quasi a stargli dietro, quindi devo dire che no, limiti non ce ne sono».
Sono molti quelli che pensano che quando di mezzo c’è la morte si dovrebbe solo alzare le braccia e stare in silenzio…
«Il fatto che delle persone purtroppo stiano morendo non costituisce un limite in sé a fare battute sulla situazione giacché le persone sono sempre morte e continueranno a morire, non solo di Coronavirus, di qualunque cosa. La morte è un tabù abbastanza ipocrita».
Quindi qual è la tua visione della situazione, da comico?
«È una situazione che sta tirando fuori un sacco di manifestazioni ridicole, penso ai famigerati balconi, isteria collettiva da terzo giorno di quarantena che infatti poi fortunatamente si è estinta rapidamente; non poteva durare quella roba da sciamannati sui davanzali. Purtroppo siamo una specie animale abbastanza ridicola, intendo l’essere umano, e in queste situazioni tiriamo fuori tutto il nostro ridicolo, anche perché è la natura stessa che ci sbatte in faccia il nostro essere ridicoli. Ci mostra ad esempio quanto siamo deboli rispetto ad un virus, un microorganismo decisamente meno evoluto di noi, eppure in realtà in grado di metterci in ginocchio. Quindi, in realtà, dobbiamo prendere atto di essere ridicoli e noi comici siamo qui per ricordarcelo».
C’è una battuta che hai pensato in questi giorni e che hai pensato «no… questo è troppo»?
«No, ti confesso di no. Non mi sto assolutamente autocensurando, anche perché, ripeto, non ce n’è motivo, la situazione che stiamo vivendo è decisamente drammatica ma non seria, parafrasando il buon Flaiano. Purtroppo il ridicolo ci perseguita anche in una pandemia e, ripeto, farlo notare è semplicemente il mio lavoro oltreché il mio terzo occhio. Quindi personalmente non ho limiti, anche perché non è che faccio battute, ovviamente, sulle casse da morto che vengono portate via da Bergamo. Non è certo un soggetto ridicolo quello, non dà ispirazione per una battuta. Le battute vengono su molto altro, dai balconi alle quarantene, dai runner ai cacciatori di runner. Gli spunti umoristici collaterali fioccano, quindi non c’è crisi d’ispirazione, anzi, per quanto mi riguarda, mi spiace dirlo ma sono particolarmente ispirato».
Siamo un popolo col senso dell’umorismo?
«No, no, no. Non lo siamo mai stati né mai lo saremo. Siamo un popolo assolutamente permaloso, indignato di default, ma indignato pur di autoassolversi dalle proprie responsabilità. Siamo un popolo orgoglioso, orgoglioso di nulla, perché non abbiamo nulla di cui essere orgogliosi, nel senso che l’essere umano non ha motivo di essere orgoglioso. Siamo semplicemente umani, nel bene e nel male, quindi non siamo il miglior popolo dal punto di vista umoristico. Detto questo però esistono anche in Italia alcune persone che ce l’hanno, quindi sta a noi umoristi rivolgerci più ai singoli che alle masse, che del resto non sono particolarmente ironiche da nessuna parte del mondo».
Quindi qual è l’approccio del comico al dramma del Coronavirus?
«Questo dramma che stiamo vivendo, essendo della durata indefinita – settimane, mesi, forse un anno, forse due, una sorta di dramma omeopatico –, il fatto che sia così diluito in partenza, è a maggior ragione un soggetto più facile da affrontare dal punto di vista umoristico. La cosa che fa specie è che in realtà proprio noi italiani, in una simile circostanza, dovremmo saper rispondere anche con l’umorismo in certe situazioni, perché abbiamo un riferimento aureo che è il Decamerone di Boccaccio; i protagonisti si trovarono proprio durante una pestilenza, molto simile come situazione a quella che stiamo vivendo, si chiusero in quarantena in una villa in Toscana a raccontarsi delle storie, molte delle quali buffe, storie per certi aspetti triviali, oscene. Ecco questo ci insegna in qualche modo, scomodando un riferimento letterario così alto, che proprio in questi periodi l’oscenità, il lazzo, la buffoneria sono quanto di meglio può avere l’essere umano per passare la quarantena. Mi rendo conto che un vaccino è meglio dell’umorismo, ma in attesa del vaccino l’umorismo può essere un modo per passare la quarantena».
Ma pare che gli spazi per la satira in tv non siano durante questi giorni così tanti…
«Infatti trovo che sia veramente grave, ma anche sciocco, colpevolmente distratto, il fatto che non ci sia un editore televisivo in questo momento che dia spazio a contenuti anche ironici, leggeri, perché non è blasfemia farlo. Al contrario è umano dare sfogo anche all’umorismo in questi momenti, se non soprattutto».
Se nessun comico ammetterà mai l’esistenza di un limite alla satira, bisogna considerare che gli italiani – e vengono in mente immediatamente le reazioni a certe copertine di Charlie Hebdo, per esempio – un limite oltre il quale non è più giusto ridere, lo riconoscano eccome…
«I limiti, da un punto di vista pragmatico esistono, ma non esistono a priori. Il famigerato limite della satira lo fissano il comico, con la sua capacità o meno di saper far ridere su certe cose, e il pubblico, con la sua disponibilità o meno di ridere di certe cose. È una sorta di patto, di accordo, che in qualche modo il comico e il pubblico cercano di trovare. È chiaro che questo è soprattutto possibile negli spettacoli dal vivo, dove il confronto tra il comico e il pubblico non è mediato. Quando ti trovi a fare comicità per un editore, che sia televisivo o radiofonico, ci sarà una linea editoriale da seguire, delle regole all’interno delle quali muoversi. Però è evidente che il limite della satira in sé per sé non esiste, è sempre un limite culturale e quindi, a maggior ragione, in tempi come questi, sempre più individuale. Perché poi ormai una cultura di massa non esiste più, non esistono più dei valori così largamente condivisi da poter fissare a priori dove sta questo limite, quindi è qualcosa in costante ridefinizione e ridiscussione. Ed è giusto che sia così».