di Valter Vecellio (huffingtonpost.it, 2 febbraio 2024)
Un’epoca remota, il 1966. I partiti ci sono ancora: con le loro sezioni, gli apparati, i congressi, le “feste”; hanno anche i loro quotidiani: la Democrazia Cristiana Il Popolo; il Partito Comunista l’Unità; e poi l’Avanti!, organo del Partito Socialista; Il Secolo d’Italia, del Movimento Sociale; La Voce Repubblicana del Partito Repubblicano… giornali ancora letti, dai militanti e dalla classe allora dirigente.
L’Avanti! del 6 ottobre pubblica in prima pagina un “appello accorato” di papa Paolo VI: «La pace non si fonda sulle armi». Formalmente è rivolto all’allora segretario delle Nazioni Unite Maha Thray Sithu U Thant: «Fare ogni possibile sforzo per un accordo fra le nazioni. Superare la statica delle ideologie contrapposte». In centro pagina il resoconto dell’«energico discorso» del Primo ministro inglese Harold Wilson al Congresso laburista: «Costruiamo una democrazia socialista». Ancora: al direttivo della Cgil, il vicesegretario Giovanni Mosca sollecita iniziative concrete per l’unità sindacale; e l’annuncio dello sciopero di duecentomila lavoratori del settore chimico. In “spalla” una lettera-appello rivolto a Pietro Nenni, patriarca del Partito.
Giancarlo Governi, straordinario affabulatore e “padre” di mille programmi che hanno fatto la storia della televisione (Alberto Sordi, storia di un italiano, Il pianeta Totò, Laurel & Hardy, due teste senza cervello, Pavarotti, la voce degli angeli, i mitici Gulp! e SuperGulp! Fumetti in Tv…), allora era giovane giornalista a l’Avanti!. «Quell’appello» racconta «lo portò in redazione un motociclista, con la raccomandazione di Nenni di pubblicarlo. Lo mettemmo in prima». Titolo: «Drammatica lettera. Un assurdo caso umano creato dalla legge». Chissà: forse lo ha dettato lo stesso Nenni: raccomandava sempre di cominciare un articolo solo dopo aver ideato il titolo; che in questo caso corrisponde perfettamente al contenuto.
«Onorevole Nenni», vi si legge, «permetta a una devota ammiratrice come me di sottoporre alla sua attenzione e a quella di tutte le madri d’Italia lo stato di dolorosa umiliante inferiorità, rispetto ad ogni altro cittadino, nel quale mi trovo. Nell’anno 1963, esattamente nel mese di febbraio, nella clinica Colombo di Milano, davo alla luce una bambina alla quale veniva imposto il nome di Debora Maria figlia di Elena Greco (cioè, il mio vero cognome) e di Cesare Rodighiero, mio legittimo marito con il quale contrassi matrimonio all’età di quindici anni e dal quale ottenni la separazione legale un anno dopo». Da allora, prosegue l’appello, i due non si sono più visti. L’uomo, dunque, non può essere il padre della piccola; chiede e ottiene il disconoscimento.
«Avendo io contratto una relazione da circa dodici anni con Moris Ergas» prosegue l’appello, «questi chiese e ottenne la paternità della bambina. Adesso mi ascolti attentamente, per favore: dunque, Debora Maria veniva a lasciare la paternità del Rodighiero e assumere quella dell’Ergas; in questo scambio di nomi veniva cancellato anche il nome della madre trovandosi quindi la bambina con attestata la sola paternità. Cioè, il certificato di nascita dice così: si certifica che Debora Maria Ergas è nata a Milano da Moris Ergas. E basta. La madre annullata, uccisa, scomparsa, vergognosamente inesistente. Possibile?, si chiederà forse lei. Possibile?, si chiederanno in molti. Già, proprio così; in questo Paese dove si parla tanto di riforme, di libertà e si discute sull’opportunità o meno del divorzio, questo è possibile e nessuno ne parla. I poveri esseri umani continuano le loro vicende, le loro comuni storie di tutti i giorni, i figli nascono senza neppure avere la possibilità di avere una madre, come mia figlia; e il mio probabilmente è un caso come tanti altri, dove essendomi separata dal compagno di tanti anni per ragioni dolorose, non posso più vedere mia figlia neppure da lontano; ed io la “morta”, la inesistente, la mai nata, non posso fare niente, perché niente prova che quella è mia figlia, perché gli uomini che ci guidano e che dovrebbero proteggerci non hanno mai fatto niente per i figli illegali. Io mi rivolgo a lei perché so le sue grandi doti di umanità, perché conosce il dolore vero e il cuore degli uomini, mi rivolgo a lei e le chiedo giustizia…».
Insomma: a dispetto di uno dei classici del diritto, “Mater semper certa est, pater nunquam”, in questo caso la madre non c’è; semplicemente non ha diritti, non conta, non esiste. Per legge. Il padre invece può tutto. E il padre, per una ripicca verso la sua compagna non più tale, si rivale sulla figlia, la vuole tutta per sé. Nega alla madre perfino di vederla.
Il vecchio patriarca, protagonista di mille battaglie cominciate all’inizio del secolo, quando ancora ragazzo repubblicano la sua strada incrocia quella di un giovane Benito Mussolini, ancora socialista rivoluzionario, nel leggere la lettera si commuove. Sa cosa significa perdere una figlia: la sua Vittoria catturata dai nazisti, matricola tatuata sul braccio numero 31635, deportata ad Auschwitz, in quel lager è morta. Sa anche chi ha scritto quella lettera: una giovane, affascinante donna bionda; curiosamente l’edizione milanese e la romana pubblicano due fotografie diverse: per i milanesi e il Nord l’immagine di una giovane donna di profilo, chinata su un “fagottino” di bimba; per i romani e il Centro-Sud la ragazza si mostra di fronte, un sorriso raggiante, la bimba al fianco è già più cresciuta. Identica la didascalia: «Sandra Milo e la figlioletta Debora».
Nenni sa che l’attrice, che già al suo attivo ha film di registi famosi (Antonio Pietrangeli, Jean Renoir, Steno, Roberto Rossellini, Federico Fellini, Claude Autant-Lara), da sempre è di simpatie socialiste (ancora prima di conoscere Bettino Craxi). «Devota amica», scrive nella lettera. Anche Nenni ne subisce il fascino: una lusinga fatta di tenerezza e affetto. Sa che quella ragazza è l’opposto dell’oca giuliva, della maggiorata vanesia descritta dalle riviste popolari. Ha un cuore e una gran voglia di vivere quella ragazza, forse per scrollarsi di dosso nascosti tormenti e antiche sofferenze; ha un cervello e un’“anima”.
Quella lettera, si dice, deve avere risposta: è sì un caso umano, ma anche il paradigma di tanti altri simili casi. È politica: viva e palpitante, concreta; quella che riguarda nel quotidiano le persone, non il fumoso, astratto teorizzare di equilibri più o meno avanzati, di convergenze più o meno parallele. Quella lettera pubblicata con evidenza in prima pagina è una “piccola” pietra miliare, un preciso segnale: i diritti civili, quelli per cui si battono Marco Pannella e il Partito Radicale, quel socialista e radicale Loris Fortuna, sono anche diritti sociali, perché riguardano milioni di persone, non una ristretta élite; democristiani e comunisti se ne facciano una ragione.
Negli anni Settanta radicali e socialisti ce la fanno a condurre in porto la riforma del Diritto di famiglia; quella lettera della Milo è uno dei tanti passi anticipatori di quello che poi sarà. Lei, che si era battuta con veemenza perché le fosse infine riconosciuto il diritto di poter vedere e frequentare la figlia, non per un caso si dividerà tra il Psi, il suo partito di sempre, e il Partito Radicale: ai suoi occhi Pannella «è meraviglioso, con quegli occhi sembra che il cielo ti si apra dinanzi, sempre dalla parte dei deboli». Non esita a iscriversi quando Pannella lancia la campagna “Diecimila iscritti o si scioglie il Partito”; spesso partecipa a manifestazioni e iniziative radicali, in prima fila a qualche Congresso; rilascia una lunga intervista a Maria Antonietta Farina Coscioni per la sua rubrica La Nuda Verità in onda su Radio Radicale, dice che a lei, cristiana e cattolica, oltre che socialista, piace molto un partito che non chiude la porta a nessuno, e non ha problemi ad accogliere tra i suoi iscritti i carcerati anche se questo fa storcere il naso a qualcuno del suo ambiente.
In quell’intervista, tra un sorriso sornione e battute di spirito, rievoca i suoi anni di ragazza e giovane donna, gli amori e i dolori, qualche rimpianto e rimorso, sogni e progetti, l’ottimismo per il futuro; conferma l’ammirazione per Craxi e Pannella, rivela idee chiarissime sui diritti delle donne, le minoranze, le rivendicazioni e le conquiste, la dignità della vita, l’assurdità di inutili accanimenti imposti anche quando chi li patisce li respinge. Ripete più volte: cristiana, cattolica, socialista, radicale. È la “Sandrocchia” politica nel senso più alto e bello del termine, partita da quella lettera del 1966, scritta per avere giustizia, e poi paladina di mille altre cause. La “Sandrocchia” poco o nulla ricordata. Forse non per un caso.