di Giulio Zoppello (wired.it, 21 gennaio 2025)
American Psycho di Mary Harron ha avuto un impatto unico, inimitabile, a dispetto di un’accoglienza alquanto polarizzata quando fu presentato per la prima volta al Sundance Film Festival il 21 gennaio 2000. Ad un quarto di secolo di distanza, l’allucinata crociata sanguinolenta di Patrick Bateman è diventata una profezia chirurgica di ciò che siamo diventati, dell’abisso morale dentro cui ci tocca vivere, tra consumismo e culto dell’immagine.
American Psycho avrà un remake, la notizia è nota da tempo. Ma certo, Luca Guadagnino si è scelto una bella gatta da pelare, perché sarà davvero dura superare ciò che Mary Harron, traendo spunto dal romanzo Bret Easton Ellis, ci donò esattamente venticinque anni fa, a maggior gloria di lui, di un grandissimo Christian Bale. Questo in virtù di una perfezione che non smette di affascinare, frutto di una visione chiara, adamantina, da parte della regista, alle prese con un progetto che pareva senza futuro. Nei primi anni Novanta si fecero i nomi di Johnny Depp e Brad Pitt come protagonisti, di David Cronenberg e Oliver Stone alla regia, ma dopo il successo incontrato dal suo Ho sparato a Andy Warhol al Festival di Cannes, fu scelta Mary Harron per il suo stile eccentrico e viscerale.
Il romanzo di Ellis aveva polarizzato la critica, appariva soprattutto difficile da tradurre in immagini data la sua struttura narrativa atipica, su cui la Harron lavorò assieme a Guinevere Turner, anche a costo di allontanarsi dal libro quando lo ritenne necessario. Nelle loro mani, American Psycho diventò molto più connesso alla black comedy, alla satira sociale, con un tasso di violenza importante ma non più così centrale come nel libro. Dichiarato fu l’intento di omaggiare tra gli altri un maestro come Mario Bava, e con lui quella concezione dell’horror come qualcosa di molto più evocativo, più complesso rispetto alla dimensione sanguinolenta e visiva delineatasi da metà anni Settanta in poi.
Christian Bale nel ruolo di Patrick Bateman fu una scelta forse atipica da certi punti di vista, un inglese nei panni di un personaggio che più americano non si poteva. Rimane però una delle prove d’attore più incredibili della carriera di Bale, criminalmente sottovalutata all’epoca. Patrick, le sue esplosioni di follia e violenza, ci accompagnano mentre salutiamo il XX secolo (l’apice della civiltà a detta di The Matrix) e ci addentriamo nel XXI secolo, seguendo le sanguinose peripezie di uno yuppie che segue un percorso opposto al protagonista di Fight Club di David Fincher: diventa schiavo di ciò che possiede.
American Psycho non a caso viene ambientato negli anni Ottanta, nella New York innamorata del reaganismo e del culto del successo. Patrick Bateman fin dall’incipit si presenta come un individuo dedito a un culto della propria persona ben oltre i confini del ragionevole. Ogni suo gesto, ogni sua azione, pensiero, decisione, sono concepiti per portarlo non solo verso un concetto di perfezione oltre l’umano, ma soprattutto per permettergli di primeggiare rispetto agli altri.
La competizione è la traccia dominante di American Psycho, è lo stesso motore del protagonista, che lavora nella finanza di quella Grande Mela che va a mille, attorniato da altri suoi simili. Ma Patrick non è simile a loro, lo ripete al pubblico continuamente, lui è qualcosa di diverso, o almeno così vuole essere. Lusso, soldi, beni di consumo, abiti, creme per il corpo, persino il sesso diventano manifestazioni di una ricerca di un potere irraggiungibile, di una volontà di dominio assoluto che è ovviamente impossibile per Patrick.
Ma è quel chiodo fisso, quell’insoddisfazione, il vero motore di una ferocia che per Patrick è di fatto la sua unica valvola di sfogo. Lo stesso fidanzamento con la bella e superficiale Evelyn (Reese Witherspoon) altro non è che la coerente conseguenza della coltivazione di uno status symbol, quello dello yuppie, che, nelle mani della Harron, è il totem perfetto di una società classista, consumista e machista.
Patrick Bateman è un mix tra Dorian Gray, Ted Bundy e Donald Trump. Uccide prostitute, poliziotti, persino lo sfortunato collega Paul Allen (Jared Leto), barboni, passanti, animali. La furia omicida nella sua mente è una conseguenza di un vuoto, della necessità di comprendere chi sia veramente, di eliminare le impurità attorno a lui. Questa visione assoluta American Psycho ce la fa arrivare più e più volte, mentre con macabra ironia lo vediamo correre sulla lama di un rasoio, confessare inutilmente a chiunque i suoi delitti, parlare del suo amore per la violenza, il sangue.
Nessuno scoprirà i delitti di Patrick, neppure quel Detective Kimball (Willem Dafoe), che, a un certo punto, pare intuire che c’è qualcosa di strano in quel tizio che si mette impacchi di ghiaccio sugli occhi la mattina e perde completamente fiducia in sé stesso di fronte a un biglietto da visita più bello del suo. Tuttavia, alla fin fine, neppure siamo sicuri che Patrick abbia veramente commesso tutti quei delitti orrendi oppure si sia sognato tutto.
La sua confessione finale perde di significato, la verità sfugge a lui come sfugge a noi, come se American Psycho fosse una sorta di trucco, di truffa o chissà che altro. L’unica verità che Patrick può avere è quella degli altri, di quell’alta società di maschietti rampanti e spesso omosessuali repressi, donne superficiali pronte a svendersi, riti sociali vuoti e fini a sé stessi.
Se a livello cinematografico Patrick appare una deformazione mostruosa del Gordon Gekko di Wall Street, d’altro canto è innegabile come sia anche legato a ciò che rappresentava Donald Trump negli anni Ottanta. I riferimenti nel libro sono numerosi; nel film la cosa è più sfumata, si nutre di parallelismi visivi, del look, di una citazione, ma rimane innegabile tale elemento. Come il Donald Trump che conosciamo, anche Patrick Bateman è ossessionato dal controllo totale, dalla supremazia.
Asociale, egoriferito, misogino, colleziona donne non per il piacere sessuale ma come prova della sua superiorità da maschio alfa ed è convinto che l’apparenza sia lo specchio della verità interiore. Tutto ciò che lo circonda dev’essere un prolungamento della sua identità, del suo io: è giudice e giuria di chiunque attraversi la sua strada. L’unico essere femminile per cui Patrick prova una certa empatia è la segretaria Jean (Chloe Sevigny), che, pur tentato, non ucciderà. Cercherà di trovarci difetti che giustifichino la sua follia omicida, ma si arrenderà di fronte all’onestà e alla genuina ingenuità della ragazza.
American Psycho è un concentrato della società dell’immagine prima di tutto e dei danni irreparabili che può arrecare. La terrificante realtà, a venticinque anni di distanza, è che, dopo gli anni Novanta, il XXI secolo tecnocratico ha creato legioni di Patrick Bateman. I social, da Instagram a TikTok, da YouTube a Facebook, ci riversano una marea di uomini e donne che come Patrick immortalano la propria routine, cercano di donarci un’immagine perfetta e invidiabile di sé stessi, elevando a rito la quotidianità in virtù della volontà di essere invidiati, amati, idolatrati.
C’è una violenza nauseante in questa mentalità, che è la stessa che American Psycho palesa nelle parole, nelle azioni e nei pensieri di Patrick, che, grazie a Christian Bale, diventa una creatura folle, fatta di fragilità e dubbi dietro una maschera di sanguinolenta certezza. Il paradosso è come Patrick sappia di vivere in un mondo osceno, di esserne il prodotto, ma non riesca comunque a pensare ad altro che a sublimare la vuota essenza del suo narcisismo. Un narcisismo che, si badi bene, attrae, lo rende carismatico, ma nasconde una disperazione lucida e consapevole.
Patrick è uno dei tanti, sa di esserlo, la sua ricerca di un’identità, di un’individualità diversa dal conformismo che paradossalmente abbraccia, lo porta verso quella violenza che per lui è un atto liberatorio, una confessione. In questo paradosso c’è l’essenza che rende American Psycho ancora oggi così importante: ci rappresenta, noi e la nostra società. Viviamo in una dittatura del consumismo totale, gli ideali non esistono più, esiste solo il nostro bisogno di sentirci importanti rispetto agli altri, di non essere inferiori a nessuno.
Non esiste più una comunità, esistiamo solo noi come piccole isole incapaci di empatia, di concepire qualcosa che non sia legato agli stimoli esterni, a una perfezione di facciata. Per questo, a venticinque anni di distanza, American Psycho rimane un film così importante, così sinistramente attuale: ha predetto il XXI secolo, il fatto che oggi uno come Patrick Bateman sia un influencer di successo, come quelli che diventano divi mostrando la loro routine mattutina e la loro vita “perfetta” sui social.