La profezia dei Baustelle e il posizionamento del marchio Fedez

di Guia Soncini (linkiesta.it, 12 novembre 2021)

In una vecchia vignetta di Altan, un tizio si faceva le grandi domande: chi siamo, dove andiamo, che codice fiscale abbiamo. Ho passato ieri a farmi quelle e altre grandi domande: che cosa vuole venderci il marito della Ferragni? È difficile resistere al mercato (amore mio)? La catastrofe è inevitabile? Ed è vero che la Storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come Tomaso Montanari? «Anna pensa di soccombere al mercato, non lo sa perché si è laureata, anni fa credeva nella lotta, adesso sta paralizzata in strada, finge di essere morta, scrive con lo spray sui muri che la catastrofe è inevitabile». Nell’inverno del 2008 esisteva un governo Prodi (sembra un attimo fa, sembra un secolo), esistevano i dischi (sembra un secolo, forse due), Chiara Ferragni non aveva ancora inventato il blog The Blonde Salad, il suo futuro marito era a malapena maggiorenne, e i blog in cui una si fotografava per farci vedere com’era vestita sembravano molte cose ma certo non un antipasto di futuro (è tutto un attimo, diceva quella).

Fu allora che vennero poste le basi per decodificare il 2021. Per dividerci tra chi riconosce Anna e chi no. Naturalmente non eravamo pronti per sapere come sarebbe andato il mondo tredici anni dopo (in un’epoca in cui gli anni valgono come quelli dei cani, e in tredici anni cambia tutto come in un paio di secoli), e quindi non riconoscemmo il futuro. «È difficile resistere al mercato, Anna lo sa. Un tempo aveva un sogno stupido: un nucleo armato terroristico. Adesso è un corpo fragile che sa d’essere morto e sogna l’Africa. Strafatta, compone poesie sulla catastrofe. Vede la fine in metropolitana, nella puttana che le si siede a fianco, nel tizio stanco, nella sua borsa di Dior».

Nel 2008 i Baustelle erano il gruppo più amato dai laureati in Lettere, e quando incisero Il liberismo ha i giorni contati, l’unica loro bella canzone, non sapevano che Anna era un ragazzino di Buccinasco, aspirante rapper, che non riuscendo a scrivere neanche una bella canzone poi avrebbe cambiato carriera per diventare il Giorgio Mastrota della sua generazione, e che neanche nei sogni più bagnati avrebbe potuto pensare che Dior fosse alla sua portata. Tredici anni dopo, Chiara Ferragni il ragazzino di Buccinansco se l’è sposato (in Dior), ci ha fatto due figli, lei è la più brava del mondo a vendere prosciutti (cioè: sé stessa e qualunque prodotto sfiori, dall’alta moda di Dior ai ravioli da supermercato) su Instagram, e lui pure se la cava. Lei ha un modello di bottega più suadente; l’anima del commercio di lui, invece, è strillare che vede la fine. Vedeva la fine nel 2015, quando litigava in tv di Cucchi (io se tirano fuori una cosa detta quando avevo 26 anni muoio di vergogna, lui la ricondivide periodicamente tutto bello orgoglioso di sé: dev’essere bellissimo essere esenti dai processi evolutivi). Vedeva la fine a maggio 2021, quando strologava in tv di offese ai gay in un concerto dedicato ai diritti dei lavoratori (e poi pubblicava telefonate con la Rai durante le quali si gonfiava d’indignazione tipo Hulk e, onde rendere chiaro anche alle fasce più ingenue del suo pubblico che l’indignazione è merce, con lo screenshot indignato si faceva la nuova foto profilo di Instagram, e poi la Rai lo denunciava, e poi finiva tutto a tarallucci e cuoricini).

«Vede la fine in me che vendo dischi in questo modo orrendo, vede i titoli di coda nella casa e nella libertà» (era il 2008: Berlusconi era un problema, mica un’opportunità; era il nemico pubblico, mica era arrivato Salvini a venderci i tortellini al ragù e i mojito e a farci ristabilire gerarchie etiche e di cuoricinabilità). «Che cosa vuole venderci il marito della Ferragni» è una domanda non assoluta (la risposta sarebbe facile: tutto quello che siamo disposti a pagare, cioè tutto tranne le sue canzonette, alle quali deve allegare magliette per smerciarle) ma immantinente: che cosa vuole venderci col dominio fedezelezioni2023, il cui acquisto i giornali di ieri hanno inutilmente dibattuto. Solo chi pensa che il liberismo abbia davvero i giorni contati può pensare che il marito della Ferragni si candidi. E solo Tomaso Montanari, che mercoledì a Otto e mezzo – non avendo evidentemente mai ascoltato un testo di Francesco Guccini (ma anche solo uno di Ani DiFranco) – ha detto «Fedez fa già politica scrivendo i testi che scrive, ha certamente più impatto sul costume e sulle idee di gran parte del mondo politico, e forse c’è più visione politica nei suoi testi che nell’intera politica del governo Draghi», solo lui può pensare al marito della Ferragni come a un politico che faccia politica in modo nuovo, e non a un Giorgio Mastrota che in modi nuovi ci venda bici col cambio shimano vecchie.

No, non è vero. Cioè, è vero che i Montanari sono tantissimi. Tantissimi quelli che neanche capirono una roba trasparente come l’operazione primo maggio. Tantissimi quelli così fessi da aver scambiato il marito della Ferragni che vendeva sé stesso – il suo essere testimonial di buone cause e di magliette, di capi d’alta moda e di borsoni d’acrilico, di bambini malati e di bigiotteria pacchiana, di tatuatori e di diritti civili – per un progresso fatto da un disegno di legge. Sono tantissimi, e hanno tutti diritto di voto e a volte persino diritto d’editoriale, quelli che hanno creduto che Fedez si stesse mettendo al servizio della Zan invece di capire che stava usando la Zan per aumentare il proprio valore di mercato, per migliorare il posizionamento del marchio Fedez. Figuriamoci se non credono che si candidi. Non capiscono la contemporaneità, possono mai capire che lo smercio d’un disegno di legge funziona come quello d’un prosciutto? «Muore il mercato per autoconsunzione, non è peccato, e non è Marx ed Engels, è l’estinzione, è un ragazzino in agonia».

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