
di Pierluigi Battista (huffingtonpost.it, 21 febbraio 2025)
Siamo così schiacciati sul presente da pensare che nella politica tutto sia stato inventato adesso. Che siamo all’Anno Zero, che Silvio Berlusconi ha introdotto lo spettacolo nella politica, che con il trumpismo siamo al culmine del trionfo della personalizzazione della politica, che la politica è diventata irrimediabilmente schiava di codici estetici.
Pensiamo addirittura che solo in questi anni sia stato inventato il populismo iperemotivo e tendenzialmente irrazionale. Ma lo pensiamo perché ci siamo inventati questa invenzione, frutto della deriva presentista e antistorica della nostra cultura e della nostra mentalità. Lo pensiamo perché non leggiamo più i libri che ci spiegano la Storia, oppure perché li abbiamo letti ma ce ne siamo dimenticati. Leggiamo invece (o rileggiamo) un classico della letteratura politica e della storia delle idee come La nazionalizzazione delle masse di George L. Mosse (tradotto e pubblicato in Italia dal Mulino) per capire le radici profonde (la «lunga durata» come dicevano gli storici delle Annales) di quello che sta succedendo da un paio di secoli a questa parte nella politica, anche nella politica democratica.
Anche nella “politica democratica”, certo, perché la spiegazione del valore del simbolismo descritto da Mosse prende come esempio compiuto il nazionalsocialismo. Ma Mosse va più indietro, fino alla Rivoluzione Francese, dove si forgia il culto mistico della Nazione, la devozione verso la Dea Ragione, la nuova partizione del tempo, la monumentalità, il leaderismo. E poi negli autoritarismi del XX secolo, ci dice Mosse, «milioni di persone» intuirono che nella nuova politica di massa il simbolismo fornisse «una possibilità di partecipazione politica più vitale e più significativa di quella offerta dall’idea “borghese” di democrazia parlamentare».
Si trasformò la folla «in una coerente forza politica» capace di poggiare «su una grande varietà di miti e di simboli che si basavano sull’anelito a sottrarsi alle conseguenze dell’industrializzazione. L’atomizzazione della tradizionale visione del mondo e la distruzione dei legami tradizionali e personali stavano penetrando nelle coscienze di larga parte della popolazione». Scrive ancora Mosse: «l’obiettivo era quello di unificare nuovamente il mondo e di restaurare, nella nazione ridotta in frantumi, un nuovo senso di comunione». Mosse cita addirittura Johan Huizinga: «Quando il pensiero, che ha riconosciuto all’idea una realtà indipendente, vuole tradursi in immagini, non lo può fare che col mezzo della personificazione». C’è solo da aggiungere che Huizinga di riferiva nientemeno che al XV secolo. Altro che presentismo.
La nazionalizzazione delle masse, il «senso di comunione» che i miti e i simboli assicurano al popolo nell’era della società di massa, è la risposta al sentimento di atomizzazione, di solitudine, che attanaglia le nuove società industriali percepite come fredde, meccaniche, incapaci di calore comunitario. E dunque anche le democrazie “borghesi” hanno capito la ragione del «senso di comunione», e non hanno disdegnato quel formidabile meccanismo emotivo e psicologico che Mosse chiamava «l’estetizzazione della politica». Lo capì Roosevelt con le sue “chiacchiere al caminetto” [“fireside chats” – N.d.C.], utilizzando quel nuovo formidabile strumento che era la radio.
E lo hanno capito tutti, anche in Europa. Non diamo grande importanza agli inni e alle bandiere? Non sentiamo come una caratteristica della leadership la sua capacità di parlare per immagini, di proporre una sua estetica? E le campagne elettorali davvero si può pensare che siano state dominate dalla freddezza di scelte razionali e puramente utilitarie (com’è convincente il terzo comma del punto quattro del nostro programma!) e non dalla potenza delle emozioni, delle identificazioni, degli slogan, dei domani che cantano. Ci sono delle differenze, e Mosse le capiva bene. Ma l’estetizzazione della politica è un concetto che dobbiamo a lui. Il presente non ha inventato niente.