di Daniele Cassandro (internazionale.it, 9 febbraio 2022)
Betty Davis (nata col nome di Betty Mabry nel 1945 a Durham, nel North Carolina, e morta il 9 febbraio 2022) viene considerata una postilla nel canone della musica afroamericana. Ha avuto una carriera piuttosto breve e nella storia del rock, non il più inclusivo dei territori per le artiste nere e femministe, ed è ricordata soprattutto per i suoi mariti, flirt e fidanzati. È stata amica e sodale di Jimi Hendrix, moglie di Miles Davis tra il 1968 e il 1969 e compagna, molto brevemente, di Eric Clapton e di Robert Palmer. Betty Davis è una musicista, autrice, produttrice e capo delle sue band, innovatrice del funk e del rock e pioniera del rap, ma si ritrova a essere ricordata essenzialmente per essere stata, per un anno, la moglie di Miles Davis.
Al massimo le viene concesso il ruolo tipicamente femminile di musa: grazie a lei e alla sua influenza muliebre, Miles avrebbe scoperto il rock di Hendrix, il funk di Sly Stone e gli si sarebbero spalancate davanti le porte che lo avrebbero indotto al concepimento di Bitches brew, il suo rivoluzionario doppio album del 1970. Betty Davis insomma, come spesso capita alle donne che fanno arte, è passata alla storia più come un mezzo che come un attivo agente di cambiamento e di innovazione. Il critico afroamericano Tony Bolden, nel suo recente libro Groove theory: The blues foundation of funk, si lancia in un’appassionata rivalutazione della figura di Betty Davis definendola «una ribelle culturale e un’intellettuale organica». Bolden usa proprio la definizione gramsciana per sottolineare il fatto che la musica di Betty Davis e il suo pensiero erano il frutto di una sua totale immersione nella realtà politica della fine degli anni Sessanta e di una sua accesa coscienza di genere e di classe. Bolden è convinto che la sua cancellazione dal canone della musica afroamericana dipenda proprio da un’alterità, sempre dichiarata ed esibita.
Betty Davis era femminista: le sue canzoni insistono sul punto di vista femminile e vedono la donna, una donna nera, fisicamente prestante ed economicamente indipendente, al centro di un universo di lotta e di piacere in cui i maschi sono al massimo dei comprimari. Davis, nei suoi testi, usa spesso il sesso bdsm come metafora del gioco di potere che si stabilisce tra uomo e donna, e nei suoi live, che mescolano concerto rock e burlesque, si presenta come regina egizia, dominatrix o puttana ma soprattutto, e questo era il vero scandalo, leader di una band interamente ingaggiata da lei. Sul palco Betty Davis è Sly Stone ma con gambe chilometriche, calze a rete e un minuscolo baby doll di seta. L’alterità di Betty Davis è soprattutto musicale. Come Jimi Hendrix anche lei parte dal blues, ma anziché ibridarlo con il rock lo imbastardisce con il funk, creando una specie di super black music muscolosa, ruvida e sudata, in cui la sua voce rauca e distorta viene usata come uno strumento. Non è la canzone la sua preoccupazione ma il groove: il funk è musica da ballo, musica da festa, e Betty Davis, con il suo flow che è già da rapper, vuole liberare le menti e i corpi di chi la ascolta, vuole eccitare, vuole arrapare e vuole dominare.
Bolden nota che tutto questo era troppo, sicuramente per il pubblico bianco che la vedeva come una pazza, una specie di pagliaccio semipornografico, ma anche per il pubblico nero, troppo legato a stereotipi di genere o di classe. Le istanze di Betty Davis erano molto simili a quelle delle femministe nere della sua epoca, ma lei non si muoveva in ambienti accademici o politici, lottava in un ambiente musicale che non era pronto e che molto difficilmente le avrebbe dato spazio. La sua voce non piaceva a molti critici neri: le donne che cantavano di solito venivano dal gospel ed erano delle virtuose: Betty Davis era tante cose ma certo non era Aretha Franklin e tanto meno Diana Ross. Il suo canto abrasivo, quasi parlato, borbottato o urlato e le sue movenze oscene sul palco la rendevano al massimo una specie di curiosità se non una mostruosità.
They say I’m different (“Dicono che sono diversa”) è il suo secondo album ed esce nel 1974 per la Just Sunshine, una piccola etichetta indipendente di New York. In copertina Betty Davis compare come una guerriera afrofuturista: capelli afro; un costume da amazzone che suggerisce elementi di antico Egitto, arte nativa americana e fantascienza; tra le mani ha delle lunghe aste che potrebbero sembrare tanto delle armi quanto dei futuribili strumenti musicali; ai piedi ha due stivaletti con il tacco altissimo bordati di pelliccia, si poggia su un ginocchio e tiene le gambe divaricate, in una posa che è più da cacciatrice vittoriosa che da ammiccante pin-up. Lo sguardo è rivolto verso un punto lontano che a noi non è dato vedere.
Il disco si apre con Shoo-b-doop and cop him, un pezzo che si richiama direttamente alle sue radici blues. Davis si rifà alle grandi blueswomen degli anni Venti, quelle che cantavano nei bordelli del Sud, e ne fa rivivere lo spirito in chiave acid rock. Il maschio è visto come un mero strumento di piacere senza nome ed è osservato, commentato e palpeggiato con gli occhi da un gruppo di donne. “Non è carino? Guardalo lì, guardalo bene… quasi quasi me lo prendo e lo provo per tutta la notte, fino alle cinque”. Sembra uno skit di Missy Elliott o di Nicki Minaj, ma siamo nel 1974.
In He was a big freak, Davis cambia registro e non si limita a desiderare ma, con una catena di turchesi in mano (il turchese era la pietra preferita di Jimi Hendrix) frusta e umilia il suo uomo. “Lui era strano forte”, canta Davis, “quando ero la sua donna lo facevo godere, lo portavo al limite. Quando ero la sua amante gli davo brividi da quattro soldi e quando ero la sua principessa mi mettevo seta e merletti per lui. Quando ero la sua mogliettina lo massaggiavo, lo amavo e gli preparavo da mangiare. Quando ero la sua geisha mi mettevo giù e (…) quando ero il suo fiorellino mi facevo chiamare Rosie May”. E poi la conclusione: “Era strano forte, rideva quando lo facevo piangere e lo frustavo con la mia catena di turchesi”. Poco importa se il “big freak” di cui si parla fosse Miles Davis o Jimi Hendrix, nella canzone Betty Davis mette in scena un teatrino sessuale in cui incarna tutti gli stereotipi femminili e li smonta: la moglie, l’amante, la geisha, il fiorellino verginale e la dominatrix.
In Don’t call her no tramp affronta il tema della prostituzione dal punto di vista, ovviamente, della prostituta, non come pezzo di carne ma come donna sola che cerca di sbarcare il lunario. Dieci anni prima di Private dancer, canzone scritta da Mark Knopfler per Tina Turner, Betty Davis parla di una donna che si vende per vivere ma che in testa ha prospettive e aspettative che il suo cliente non può neanche immaginare. Il tema del lavoro sessuale, visto in chiave economica prima che morale, stava proprio in quegli anni entrando nel dibattito femminista. Ma Betty Davis era sola e la sua musica, il suo personaggio, i suoi live e il suo stile erano davvero troppo per un’artista afroamericana dei primi anni Settanta: per lei non c’era spazio. La sua eredità sarebbe stata raccolta anni dopo: prima da gente come Rick James e Prince, uomini che ne hanno saputo leggere e reinterpretare la carica erotica e scandalosa più che quella liberatoria e femminista, e poi da donne, ovviamente rapper, come Foxy Brown, Lil’ Kim e Missy Elliott prima e Nicki Minaj, Cardi B e Cupcakke poi.
Nel 2007, intervistata in occasione della ristampa dei suoi album, Betty Davis è stata di poche parole.
Hai mai registrato altro dopo il tuo ultimo album?
«No».
Perché?
«Perché no».
Non ti interessava più la musica?
«Ci ho pensato ma ho perso interesse».
Perché hai mollato la musica?
«È successo e basta».
Ti è mancata la musica?
«No».
Quando hai smesso di fare musica cosa hai fatto?
«Niente».