La politica a colpi di selfie

di Fulvio Abbate (huffingtonpost.it, 13 settembre 2024)

I selfie restituiscono il quotidiano della nostra storia repubblicana. Andamento e sostanza dei suoi governi. Un dato iconico di fatto. Cancellando quasi l’antica memoria delle quadrerie ufficiali che trovavano posto nei corridoi del Palazzo. Quirinale, Chigi, Madama, Montecitorio. Surclassando altrettanto i busti risorgimentali posti sulle sommità capitoline del Pincio e del Gianicolo.

Idem gli album di figurine che, sempre un tempo, restituivano allo scolaro collezionista la storia patria. Da Muzio Scevola e l’eroina Clelia a Vittorio Emanuele e Giuseppe Garibaldi, da Armando Diaz allo stesso Benito Mussolini accompagnato a Roma dai suoi “quadrunviri”. Il selfie, non sembri un paradosso, secolarizza e sostituisce infatti ciò che sempre in origine era il ritratto in posa, equestre o da studio, surclassando, lo si è già detto, ogni protocollo ufficiale. Una forma d’incarnazione della politica e del ruolo dei suoi “attori” protagonisti nel quotidiano ordinario.

Quando, appunto, gli storici, affidandosi in parte agli strumenti della semiologia, dovranno restituire se non la “comunicazione” spicciola addirittura la sostanza ideologica immediata, metti, del governo di Giorgia Meloni, piuttosto che rivolgersi all’Archivio di Stato sarà il caso che facciano in primo luogo caso proprio alla sequenza di selfie che, nel corso del proprio esecutivo, l’attuale presidente del Consiglio, insieme al suo intorno più prossimo alle scrivanie di lavoro, staff o semplici suggeritori, ha messo al mondo dei social per dimostrare innanzitutto proprio d’esistere. Così da restituire un’idea di Fiducia.

Se François Mitterrand si rivolgeva al pubblicitario Jacques Séguéla per ricevere un claim perfetto – “La forza tranquilla” – nel nostro caso c’è da immaginare il cellulare affidato alle mani del fido collaboratore, un sottoposto, che scatti, e ancora scatti, affinché il sorriso sia finalmente giusto, ottimale. Varianti di sorriso, sguardo al cielo, e come orizzonte un cielo di sfondo. Lo stesso azzurro araldico che accompagna i fondali dei congressi e delle assemblee di Fratelli d’Italia. Una mano d’azzurro che cancelli il nero delle origini, forse anche il blu intenso su cui inizialmente era posta la Fiamma, allora accompagnata da parole che si pretendevano rassicuranti e insieme assertive: “L’ultima speranza, l’unica certezza”.

Scorrendo ancora la sequenza dei sorrisi persistenti che Giorgia Meloni offre alla “gente” dal suo dominio Instagram, talvolta interrotti da uno scatto che la restituisce “pensosa”, dunque intenta a curare il bene della “Nazione”, trova altrettanto spazio il racconto familiare. Lei e sua figlia Ginevra appena giunte in Cina, le treccine della piccola accompagnate dal commento materno: “Ovunque, insieme. Ti amo topolina mia”. L’obiettivo è così raggiunto: “Bravissima Giò” è la risposta immediata del suo pubblico, il complimento reca anche un bocciolo di rosa. Ogni genere di smile ed emoticon la raggiunge, tutte faccine idonee a restituire l’affetto, perfino nelle sue forme più servili, tuttavia non meno ideologiche a dispetto dell’apparente infantile iconicità.

Talvolta, il selfie lascia invece spazio a un implicito “editoriale”. Accade quando, come nell’ormai mediaticamente paradigmatica intervista doppia de Le Iene, Meloni accosta il proprio volto al viso incerto della “controparte”; Ilaria Salis, in un video tratto da un tg, afferma: “Occupare case per stato di necessità è giusto”. La “faccia” perplessa della premier sembra subito suggerire, con malcelata prossemica teatrale espressamente prosaica, “… la sentite questa?”.

Piccola digressione necessaria: nessuno meglio di Francesca Reggiani, ricorrendo unicamente al proprio talento comico, ha decostruito la comunicazione “rionale”, estensione retorico-attoriale in possesso di Giorgia Meloni. Anche qui, fuori da ogni cifra istituzionale, cancellando la formalità e l’etichetta che il ruolo pretenderebbe, si suggerisce identificazione, complicità. Il messaggio? “Vedi, sono come voi, sono voi”.

La certezza dei selfie. Alle spalle della foto “d’epoca” di Winston Churchill che solleva le dita nella “V” di “Vittoria”, i mattoni di cotto di Downing Street, storico domicilio del capo del governo del Regno Unito; alle spalle del selfie di “Giorgia” che compie il medesimo gesto lo sfondo è un rivestimento di mattoni di “cortina”, segno proprio dell’edilizia delle “palazzine” romane. E questo che potrebbe sembrare un dettaglio insignificante appare invece, direbbe appunto Roland Barthes, maestro della scienza semiologica, come il “punctum” esatto dell’intero scatto, a sua volta accompagnato da un sorriso, ora perfino velatamente beffardo, accompagnato da una premessa trionfale e dall’icona del tricolore: “Fratelli d’Italia si conferma primo partito italiano, superando il risultato delle scorse elezioni politiche”.

Chi dovesse ritenersi estraneo agli intendimenti politici della destra-destra di Giorgia Meloni è bene che faccia attentamente caso alle emoticon di approvazione ricevute dal post del “presidente”. Potrebbe trarne infatti cocenti delusioni, scoprendo, accanto al like delle cortigiane già scorte in precedenza, le “manine” d’applauso lì apposte da una propria ex fidanzata, ciò che è appena accaduto a chi scrive. Segno che il selfie è vettore di consenso, pronto a cancellare il tempo dei comizi e delle tribune politiche ed elettorali.

Parafrasando lo storico claim dell’Agenzia Magnum, il selfie “vale più di mille parole” ormai. I social dimostrano che siamo ormai nel tempo della post-fotografia. Non sembri un paradosso, eppure non è un caso che, nell’altrove della cronaca politica più recente, segnata dall’affaire Boccia-Sangiuliano, i selfie della signora influencer di Pompei stiano assumendo un peso narrativo e politico non meno indiscutibile, una risposta non meno iconica e antagonistica pronta a confermare la sostanza linguistica del nostro discorso.

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