di Emmanuele Michela (ilfoglio.it, 21 agosto 2021)
Chi era al Ghazi Stadium di Kabul il 15 febbraio 2002 non fatica a definire “storico” quanto accadde quel pomeriggio. E Giacomo Liguori, che all’epoca era Caporal Maggiore dei Cavalleggeri Guide, riesce ancora oggi a emozionarsi nel ripensare alla partita di Calcio che lì si giocò, specie mentre scorrono in tv, in questi giorni, le immagini del ritorno dei talebani nella Capitale afghana. Liguori, 47 anni, oggi è sergente maggiore capo qualifica speciale, e ha alle spalle missioni anche in Somalia, Kosovo, Bosnia, Libia e Iraq. Ma per l’Afghanistan conserva un ricordo particolare.
Legato al match in cui fu coinvolto tra una selezione del contingente Isaf (International Security Assistance Force) e una squadra locale, il Kabul United, che si disputò di fronte a 30mila persone. Un pomeriggio di sport che doveva festeggiare la liberazione della Capitale e quello che si pensava potesse essere un futuro, sempre più duraturo, di pace. «Fu un evento unico, capivamo che era qualcosa di grande, ma solo oggi mi rendo conto, ancor di più, che valore potesse avere», dice Liguori al Foglio Sportivo. Su quella partita ci sono fotografie e testi, su Internet si trovano anche alcune immagini video raccolte all’epoca dall’Associated Press – perché il dispiegamento mediatico per l’occasione fu enorme, con Cnn e Bbc in testa nel dare voce all’evento –, ma nulla la descrive come le parole di chi vi partecipò e segnò pure: la partita fu vinta dai militari di Isaf per 3 a 1 dopo essere passati in svantaggio con un gol pazzesco del numero 7 afghano («mai vista una rovesciata così agile»), mentre a Liguori toccò la rete del pareggio, con un bel destro da fuori area. Più della mera cronaca dei 90 minuti fanno i dettagli di come nacque l’idea di giocare quel match, impensabile poche settimane prima. Una storia che, a rileggerla oggi, fa ancora più male: «La missione di Isaf era iniziata solo a fine dicembre, la partita fu un’idea del contingente inglese, col sostegno dell’Onu: si voleva dare un forte segnale di cambiamento, in uno stadio che per i talebani era il simbolo delle esecuzioni. La gente temeva quel luogo, occorreva cambiare questa percezione: fu chiamata la Partita dell’Unità».
Come ben documentato nel libro di Pino Agnetti Operazione Afghanistan, il pubblico giunse numerosissimo, e offriva un colpo d’occhio incredibile, con almeno 30mila uomini (nessuna donna era presente) di varia etnia: pashtun, uzbeki, hazara, tajiki formavano un mix di turbanti, abiti lunghi e barbe tanto ordinato quanto festoso. Fuori dall’impianto rimasero altre migliaia di persone, e questo provocò non pochi problemi, ci furono anche spari e feriti, tanto tra i civili quanto tra i militari chiamati a tenere l’ordine. Ma il match si giocò regolarmente e, nonostante si corresse su uno strato di segatura, fu una partita in grande stile: la terna arbitrale, guidata dall’inglese Peter Jones, solo la stagione prima aveva arbitrato in Champions League, mentre per allenare la squadra di militari europei furono chiamati vecchi nomi del Calcio britannico, come Gary Mabbutt (quasi 500 presenze col Tottenham tra anni gli Ottanta e Novanta) e Lawrie McMenemy (nel 1998-99 selezionatore dell’Irlanda del Nord). Liguori, che era stato calciatore a livello dilettantistico nella sua Tursi (Matera), era giunto in Afghanistan appena un mese prima: «Ero tra i primi 30 italiani spediti sul posto: dovevamo preparare la base logistica per il contingente che sarebbe arrivato in pochi giorni. Dormivamo in tenda, all’inizio, al freddo e per di più digiuni, poi cominciò l’insediamento, con i sopralluoghi e le bonifiche». Per partecipare alla partita avvenne una vera selezione, organizzata dal contingente inglese, intenzionato a dare spazio a un componente per ogni nazione presente sul campo: «Andammo allo stadio scortati, e tra gli italiani venni scelto solo io». Poi cominciarono 20 giorni di allenamenti: «All’inizio McMenemy mi chiese: “Tu sei italiano? In che ruolo giochi?”. Gli dissi: “Ovunque, pur di giocare, anche in porta”. Si mise a ridere. Qualche giorno dopo mi disse che avrei fatto il centravanti in quanto ero l’unico in grado di fare gol, tra i militari».
D’altronde la squadra era per lo più inglese: palla lunga sulle fasce e poca creatività. La diffidenza nei confronti delle altre nazionalità era netta, «specie per me che ero italiano, non mi passavano mai la palla. Ma durante la partita ebbi l’occasione per farli ricredere». Liguori spiega che il giorno della partita si svegliò alle 5 del mattino, lui e gli altri militari selezionati furono scortati allo stadio molto presto: «Avevamo una certa paura, c’era una marea di gente per strada e non sapevamo che cosa poteva succedere». D’altronde la città arrivava da mesi di guerra e, prima ancora, da anni di regime talebano. Ma il clima rimase festoso: «Quando segnarono l’1-0 i tifosi si misero a battere i piedi: era il loro modo di festeggiare. Faceva impressione, temevo che sarebbero entrati in campo da un momento all’altro». Al suo gol Liguori si commosse perché aveva capito che stava succedendo qualcosa di grandioso, «poi dedicai il gol alle mie sorelle, Teresa e Monia, che erano a casa a Tursi con mia madre, e da là mi seguivano. A fine gara mi trovai circondato dai tifosi afghani: volevano salutarmi, toccare il mio viso senza barba. Furono gli incursori a portarmi via, per sicurezza. Sebbene non si giocasse a Calcio da anni, lì, notai che tutto il pubblico aveva una buona cultura calcistica e un ottimo atteggiamento sportivo, trovandosi ben in sintonia con un evento come quello». A seguito di quel pomeriggio, non mancarono le occasioni per far avvicinare la città al pallone: furono organizzate altre partite e tornei tra i contingenti stranieri e le squadre locali, fu distribuito vario materiale ai bambini, mentre la Fifa riportò la Nazionale afghana a disputare gare internazionali. «Fu un orgoglio far parte di quel match storico, che doveva dare un segnale di cambiamento. Quella partita fu un successo del contingente, altro invece purtroppo fallì».