di Daniele Cassandro (internazionale.it, 12 luglio 2021)
Il 24 maggio 1988, in Inghilterra, Galles e Scozia entrò in vigore un emendamento del Local Government Act chiamato Clause 28 (Sezione 28). Questa clausola, votata dal governo conservatore di Margaret Thatcher, obbligava le autorità locali a: “non promuovere intenzionalmente l’omosessualità o pubblicare materiale con l’intenzione di promuovere l’omosessualità” o “promuovere l’insegnamento in qualsiasi scuola finanziata dallo Stato dell’accettabilità dell’omosessualità come pretesa relazione familiare”. È una legge che oggi non esiteremmo a definire discriminatoria, nata in un periodo storico in cui le comunità lgbt+ di tutto il mondo erano sterminate dall’Aids, e gay, lesbiche e trans erano generalmente visti dall’opinione pubblica come degli untori.
Nel 1989, ricorda Maya De Leo in Queer: storia culturale della comunità lgbt+ (Einaudi, 2021), i procedimenti giudiziari per atti omosessuali consensuali raggiungono il picco massimo mai registrato, superando i numeri degli anni Cinquanta. Nel Regno Unito l’omosessualità, ricordiamolo, era stata decriminalizzata nel 1967. La Clause 28 è stata definitivamente abrogata solo nel 2000 in Scozia e nel 2003 nel resto del Regno Unito. Alcuni elementi di questa storia sembrano tornare a galla oggi, alla vigilia della discussione in Parlamento del ddl Zan sull’omotransfobia. Nello sconclusionato dibatto pubblico a cui stiamo assistendo non si parla tanto di “propaganda omosessuale” (almeno non così esplicitamente) quanto di una fantomatica “teoria del gender” e dell’importanza di proteggere i bambini da un non meglio identificato complotto che, secondo i commentatori più esaltati, porterebbe a una dilagante e pericolosa anarchia sessuale. Insomma i pregiudizi contro le persone lgbt+ non muoiono mai (sono gli stessi del 1988) e, soprattutto, ci sarà sempre qualcuno sul fronte più conservatore e reazionario pronto a cavalcarli.
Nel 1988 l’ormai ex pop star Boy George era un bersaglio ideale per la nuova campagna di odio dei mezzi d’informazione britannici contro i gay. Nella prima metà degli anni Ottanta aveva avuto un successo senza precedenti con la sua band, i Culture Club, uno di quei gruppi britannici (insieme a Duran Duran, Eurythmics e Human League) che avevano guidato la cosiddetta second british invasion delle classifiche pop statunitensi. A differenza della maggior parte di quegli artisti che giocavano con l’androginia senza esporsi più di tanto, Boy George (nato George Alan O’Dowd nel 1961) esibiva un’effeminatezza sfrontata e soprattutto si dichiarava apertamente gay. Finché aveva successo, il suo aspetto da innocua bambolina pop lo rendeva amato da tutti e inattaccabile; quando il successo cominciò a svanire e quando la sua dipendenza dall’eroina venne esposta dai tabloid britannici, la sua vita andò in pezzi. Nel 1988 odiare Boy George e colpirlo pubblicamente con ogni tipo di insulto omofobico era diventato uno sport nazionale. A difenderlo non c’erano neanche le associazioni gay, perché la Clause 28 le aveva smantellate quasi tutte. Il George O’Dowd della fine degli anni Ottanta cercava faticosamente di uscire dalle dipendenze e di tenere insieme i pezzi di una carriera ormai finita, ma lo faceva con l’ironia e la spavalderia di sempre. Boy George aveva la pelle dura, altro che bambolina pop.
In quegli anni il dissenso viaggiava attraverso la rete sotterranea dei primi rave clandestini, e la musica della riscossa e della liberazione dei corpi e delle menti era la prima acid house. Dopo la second british invasion, stavolta da Ibiza e non più da Londra, partiva la second summer of love, una lunga estate di amore, pasticche con lo smile e musica dance come mai si era sentita prima. Boy George viene adottato da questa nuova scena musicale: quando il circo si sposta da Ibiza a Londra, George è presente a tutte le prime serate acid house, come le ormai leggendarie Spectrum e Shoom, e arriva ad aprire una sua etichetta discografica, la More Protein, dedicata a musica dance e ragamuffin. E nel 1988 Boy George si lancia nella produzione di un nuovo singolo, una canzone di protesta contro l’omofobia di Margaret Thatcher dal titolo inequivocabile: No Clause 28. Il pezzo si apre con una voce che sembra quella della prima ministra: “L’obiettivo di questo governo è quello di rendere a tutti la vita più infelice possibile” e poi partono un beat serrato e una raffica di campionamenti (tra cui Housequake di Prince, uscita appena l’anno prima). La voce di Boy George, nonostante la durezza dei tempi, non perde la sua dolcezza pop quando canta: “Per sgonfiare il nostro orgoglio ci dicono che celebrarlo è un suicidio sociale”.
Anche il video, tappezzato di fiori colorati, colori acidi e smile è in linea con i tempi: un po’ volantino da rave clandestino e un po’ Gilbert & George. E poi canottiere, pantaloni larghi e marsupi, la perfetta uniforme del raver. Nella sua autobiografia Take it like a man, Boy George ricorda con nostalgia la moda di quei tempi: lui, che aveva passato gli anni Ottanta a truccarsi e a vestirsi, ora sperimentava la gioia liberatoria di andare a ballare con addosso solo un paio di pantaloni da yoga e una canotta. Dopo un decennio di arrogante individualismo, la scena acid house, con l’aiuto dell’mdma, invita i singoli a sciogliersi, a perdersi in una folla anonima unita dalla musica, dal sudore e dalle endorfine. Per Boy George è pura liberazione: poter sparire nella musica mentre fuori da quella bolla i giornali continuano a mostrare la sua faccia emaciata e struccata con titoli come “Frocio e drogato”, “Rovinato”, “È la fine di Boy George?”. Quando le comunità lgbtq+ parlano di “spazi sicuri” parlano proprio di questa sensazione: quella di entrare in un luogo in cui sai che non sarai giudicato, sfottuto o aggredito.
Nei due anni tra il 1988 e il 1990, Boy George comincia a rimettere insieme i pezzi della sua vita e della sua carriera. Dopo un viaggio in India, raccontato in modo esilarante nella sua autobiografia, tornerà a casa con un’illuminazione spirituale solo parziale e con la convinzione che tutte le religioni, anche quelle più buone, alla fine ce l’hanno sempre con i gay. Nonostante questa consapevolezza, si avvicina agli Hare Krishna e comincia a incorporare nel suo look e nella sua musica diversi elementi fricchettoni che non avrebbero sfigurato nel Magic shop di Franco Battiato: sari, pashmine, cimbalini, tamburelli, canti e mantra. Dall’India torna soprattutto con l’intenzione di non essere più Boy George: firma i suoi pezzi con lo pseudonimo Angela Dust (dalla polvere d’angelo, il nome in gergo della fenciclidina, un potente allucinogeno), e mette insieme un nuovo progetto che decide di chiamare Jesus Loves You (Gesù ti ama). Nel 1990 esce The martyr mantras, l’album dei Jesus Loves You. Il nome di Boy George non compare da nessuna parte: c’è solo il suo volto solarizzato in copertina, in mezzo a un tripudio di Om e di grafiche tra lo psichedelico e il cyberpunk.
L’album è tutto storto, ma è la cosa più onesta che Boy George abbia mai prodotto: non ha una direzione proprio perché è il diario di una trasformazione e del risveglio a una nuova consapevolezza. Appaiono pezzi già editi, No Clause 28 in un nuovo remix di Pascal Gabriel e l’eccezionale After the love, forse il miglior pezzo dance di Boy George, composto, ironia della sorte, proprio con Jon Moss, il batterista dei Culture Club con cui lui aveva avuto, negli anni Ottanta, una relazione sentimentale tanto segreta quanto malsana. Generations of love è il primo singolo tratto dall’album ed è remixato da Paul Oakenfold, il dj dal cui compleanno a Ibiza si scatenò l’ondata della second summer of love. È un inno all’unità e all’ascolto delle voci più marginalizzate: “Non ho bisogno di redenzione né di piani governativi”, canta Boy George con la sua voce più angelica. Generations of love parla di consapevolezza e di orgoglio (non solo gay) ed è un pezzo che, anche se oggi è poco ricordato, ha lasciato tracce importanti in chi aveva vent’anni in quell’epoca. Lo scrittore Matteo B. Bianchi ha intitolato proprio Generations of love il suo romanzo di esordio del 1999, il racconto in chiave molto pop e finalmente senza troppi drammi di un coming out italiano.
The martyr mantras, nel suo disordine, è pieno di perle nascoste: I specialise in loneliness è una ballad r’n’b di grande qualità che funziona sia cantata delicatamente da Boy George sia interpretata con più nerbo dalla cantante dance Ultra Naté. E anche la bizzarra Siempre te amare ha una sua irresistibile contagiosità. Bow down mister, con i suoi cori Hare Krishna e la partecipazione della cantante indiana Asha Bhosle, voce celeberrima dei musical di Bollywood, rimane uno dei singoli pop più bizzarri mai realizzati ed ebbe un surreale successo in Germania e in Svizzera. L’operazione Jesus Loves You ha permesso a Boy George di rialzarsi e di rimettere a fuoco il suo talento, ma principalmente ha permesso a tutti noi che crescevamo in quegli anni di riflettere su come l’omofobia e la marginalizzazione, soprattutto quando sono incoraggiate e cavalcate dalla politica, possono essere combattute a muso duro. Con l’attivismo e l’informazione prima di tutto, ma anche con la forza liberatoria del ballo e della musica.