La notte di “We are the World”

(ilpost.it, 28 gennaio 2025)

Sulla porta degli A&M Studios di Los Angeles il 28 gennaio del 1985 c’era un cartello che invitava a lasciare «l’ego fuori dalla porta». Lo aveva attaccato il leggendario produttore e compositore Quincy Jones in vista di quella che, 40 anni fa, fu una notte memorabile per la storia del pop: quella in cui fu registrata We are the World, una delle canzoni più conosciute di sempre.

Nell’ampia sala dello studio di registrazione si riunirono 46 tra i maggiori cantanti e musicisti statunitensi del momento per cantare tutti insieme la canzone scritta da Michael Jackson e Lionel Richie, con l’obiettivo di raccogliere fondi per progetti umanitari in Africa. Una pratica filantropica molto diffusa negli anni Ottanta e di cui fin da subito emersero limiti e contraddizioni, che, in anni recenti, sono stati riproposti e divulgati anche da intellettuali, musicisti e attivisti africani.
Se radunare artisti come Stevie Wonder, Bruce Springsteen, Bob Dylan e Tina Turner era stata un’impresa, fu un’impresa anche la nottata stessa, che trascorse tra qualche intoppo, qualche notevole assenza e, malgrado l’appello di Jones, diverse rivalità. La notte in cui fu registrata è stata raccontata anche nel documentario We are the World: la notte che ha cambiato il pop, prodotto da Netflix e diretto dal regista statunitense-vietnamita Bao Nguyen; lo stesso del recente documentario che mette in dubbio l’identità dell’autore della foto simbolo della guerra del Vietnam.
L’idea era venuta a Harry Belafonte, famoso sia per canzoni come Day-O (Banana Boat Song) e Matilda, sia per il suo impegno per i diritti civili. Belafonte si era ispirato all’iniziativa Band Aid, che, nel novembre precedente, aveva raccolto celebrità del pop-rock britannico come Phil Collins, Sting, i Duran Duran e Boy George per registrare in una giornata Do they know it’s Christmas?: così contattò l’agenzia di talenti di Ken Kragen, che nel giro era tanto famoso quanto gli artisti che rappresentava, e mise su l’iniziativa Usa for Africa, dove Usa stava per United Support of Artists. Non si sapeva però chi avrebbe partecipato, né dove o quando si sarebbe svolto il tutto.
Nel documentario la dirigente della Kragen & Co., Harriet Sternberg, parla di «un incubo logistico». Cantanti famosi come quelli ai quali avevano pensato pianificano tour e impegni vari con mesi di anticipo; in più, la canzone andava ancora scritta. La sera del 28 gennaio del 1985 però la gran parte di loro sarebbe stata a Los Angeles per gli American Music Awards, che all’epoca erano un evento straordinario e in quell’edizione sarebbero stati presentati proprio da Lionel Richie. L’unica alternativa praticabile era organizzare la registrazione una volta finito l’evento.
Convinsero Richie e Michael Jackson a scrivere la canzone, e Quincy Jones a organizzare tutto il caos che ci si attendeva. Ma soprattutto convinsero a partecipare Bob Dylan e Bruce Springsteen, due dei cantanti statunitensi più affermati e apprezzati dal pubblico: una volta confermato Springsteen, che peraltro avrebbe terminato la sera prima il suo tour nello Stato di New York, «fu come dover contenere un’alluvione» disse Kragen. Tra gli altri partecipò gente come Paul Simon, Billy Joel, Diana Ross, Tina Turner e Cyndi Lauper, oltre a cantanti country come Kenny Rogers e Willie Nelson, Ray Charles e, curiosamente, il comico Dan Aykroyd, che anni dopo raccontò di essere stato invitato per caso.
«Abbiamo il cast, ora ci serve il copione», disse Jones una settimana prima delle registrazioni. Quando Richie e Jackson finirono di comporre la canzone, i produttori inviarono le cassette con i demo a manager e cantanti, ancora incerti sugli arrangiamenti e su come decidere chi avrebbe cantato cosa. Al contempo cercavano di contenere una fuga di notizie, che, secondo Kragen, avrebbe attirato troppa attenzione e rischiato di compromettere l’evento. Alla fine, dopo gli American Music Awards, tutti cominciarono ad arrivare agli studi.
I cantanti e gli addetti ai lavori intervistati nel documentario di Nguyen descrivono il ritrovo di così tante celebrità nella stessa stanza come un evento straordinario ed elettrizzante. Nella sua autobiografia, Q, Jones scrive tuttavia che durante le registrazioni non volevano «incoraggiare alcun tipo di potere decisionale». Con 47 cantanti ci sarebbero state 47 versioni diverse della canzone, spiega Richie, ma per far filare tutto liscio bisognava evitare qualunque tipo di intoppo. Come dice il cantautore Kenny Loggins, noto per Footloose, «sotto sotto comunque aleggiava un po’ di competizione. Gli ego erano ancora lì».
Per fare qualche esempio, all’inizio Michael Jackson voleva solo scrivere e non cantare né comparire nel video della canzone, ma poi Kragen lo convinse. Stevie Wonder invece propose di includere qualche parola in Swahili, idea che portò il cantautore Waylon Jennings ad andarsene. C’era poi la questione della grande rivalità tra Jackson e Prince, che alla serata appena conclusa era stato premiato per il miglior disco pop/rock con Purple Rain, battendo Thriller, e che non aveva voluto partecipare nonostante fosse tra i cantanti più famosi e desiderati del momento. Non partecipò neanche Madonna, una popstar già di grande successo cui però Kragen aveva preferito Cyndi Lauper.
Si cominciarono a registrare i cori a partire dalle 22:30 circa per poi finire con gli assoli, ben oltre le 5 del mattino. Al contempo, il tutto veniva filmato. Dalle immagini del documentario si vede che c’è molta tensione, in parte perché c’era poco tempo per affinare tonalità e arrangiamenti e in parte perché poteva andare storto di tutto. Richie cercava di trovare compromessi, mentre Jones di far rilassare i cantanti. Ci furono anche problemi tecnici legati al rumore nel microfono di Dionne Warwick e di quello di Cyndi Lauper, che poi però si capì era il risultato del tintinnio di tutte le collane e i bracciali che indossava.
Bob Dylan sembrava uno dei più disorientati e impacciati; e c’è un video molto famoso che mostra la sua espressione vuota e perplessa durante la parte corale, durante la quale a malapena muoveva la bocca. Si tranquillizzò e riuscì a interpretare il suo assolo solo dopo aver chiesto a Stevie Wonder di risuonare la canzone al pianoforte. L’ultimo assolo a essere registrato fu quello di Springsteen, attorno alle 6 del mattino. Gli mancava la voce, ma lo portò a casa egregiamente: quando finì, Richie gli disse che era «ufficialmente in vacanza».
Una volta terminate le registrazioni Diana Ross chiese un autografo al cantautore Daryl Hall sul proprio spartito, e così fecero molte altre e molti altri. Parlando con Esquire, Billy Joel disse che secondo lui We are the World non piaceva a nessuno. C’erano state molte occhiate di traverso, un paio di risatine e qualche mugugno sulla melodia e sulle parole, raccontò, «e mi ricordo che Cyndi Lauper disse che le sembrava una pubblicità della Pepsi»: nessuno, però, si sarebbe rifiutato di cantarla.
Il singolo fu pubblicato il 7 marzo successivo. Le prime 800mila copie furono tutte vendute nel giro di 3 giorni e negli Stati Uniti We are the World fu per settimane al primo posto delle classifiche, come quella di Billboard. Secondo Time era destinata a diventare «il successo del decennio»: ai Grammy Awards del 1986, in effetti, vinse sia il premio di disco sia di canzone dell’anno, e negli anni vendette oltre 20 milioni di copie, raccogliendo decine di milioni di dollari, devoluti a cause umanitarie. Contribuì inoltre all’effetto a catena cominciato con Band Aid, e proseguito con i grossi concerti benefici Farm Aid e Live Aid.
Nel tempo, nonostante il successo, le operazioni dietro a canzoni come questa sono state rivalutate e messe in discussione, specialmente da giornalisti, accademici e attivisti della diaspora africana che hanno criticato il modo in cui hanno banalizzato l’Africa e i suoi problemi. Nel saggio L’Africa non è un Paese, per esempio, il giornalista Dipo Faloyin ha scritto che Do they know it’s Christmas?, l’altra grande operazione di questo tipo, «ha condensato tutti i peggiori stereotipi su un enorme Paese in crisi in un piacevole motivetto di 4 minuti, di così facile ascolto da rimanere inamovibile per decenni nel repertorio annuale delle hit festive suonate nei locali e nei party aziendali».
Sono critiche che, seppur con minore visibilità, emersero anche all’epoca in cui le canzoni furono registrate. Intanto, nel febbraio del 2010, We are the World sarebbe stata registrata di nuovo da decine di artisti per raccogliere fondi per Haiti, uno dei Paesi più poveri del mondo, appena colpito da un devastante terremoto: tra questi c’erano Justin Bieber, Barbra Streisand, Snoop Dogg, Celine Dion, Miley Cyrus, Usher e Pink.

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