di Matteo Persivale («Corriere della Sera», 10 maggio 2018)
“This is America”, questa è l’America. L’America dove, dice l’ultimo sondaggio, la maggioranza crede che l’indagine su Trump e la Russia sia politicamente motivata (come dice il presidente) nonostante ci siano già 23 incriminazioni e 5 ammissioni di colpevolezza. L’America dove il nuovo presidente smonta pezzo a pezzo l’eredità del suo predecessore — sanità, tasse, emissioni, Iran — per cancellare Obama se non proprio dai libri di Storia almeno dalla vita quotidiana dell’America, come se la sua presidenza non fosse mai avvenuta.Questa è l’America, e allora non poteva non succedere qualcosa. Il premio Pulitzer, categoria Musica, viene assegnato per la prima volta a un rapper. Lo spettacolo musicale durante l’intervallo del Super Bowl, la finale del campionato di football, che diventa un j’accuse anti-razzista in diretta tv davanti a 170 milioni di persone. Un video musicale con una coreografia danzante da musical, come un’allucinazione, la violenza contro gli afroamericani. E poi c’è la rinascita di Harlem, l’ex ghetto dei neri che diventa la centrale della moda, il ritorno del negozio storico che negli anni Ottanta battezzò l’alba del rap. Chi sta raccontando l’America dell’era Trump? Gli editorialisti? Gli scrittori? No, i musicisti. E uno stilista. Tutti afroamericani, popolarissimi, decisi a parlare in modo nuovo a un’America nuova. Quella degli abusi della polizia sugli automobilisti neri disarmati che finiscono ammazzati con frequenza allarmante; il terribile paradosso dello stragista bianco della chiesa nera di Charleston, Dylann Roof, che pur armato fino ai denti viene arrestato senza incidenti dalla polizia, che senza problemi gli porta anche un hamburger (il massacro gli aveva messo appetito); la sproporzione tra delitti e pene per gli afroamericani; la città di Flint, Michigan, lasciata senza acqua potabile da anni. Diventano canzoni, video, che vengono diffusi in modo virale sui social media e creano un modello nuovo di attivismo politico. Kendrick Lamar, rapper di Compton, quartiere malfamato di Los Angeles, entra nel salotto buono delle Lettere americane aggiudicandosi il Pulitzer — di solito riservato a raffinati compositori contemporanei e a qualche jazzista particolarmente colto — per un cd, Damn, che racconta attraverso una polifonia di voci («Ho potere, veleno, dolore e gioia dentro il mio Dna / Ho arte di arrangiarsi e ambizione dentro il mio Dna») la vita dei neri, oggi. Beyoncé trasforma in un film il suo album Lemonade e mostra le auto della polizia che affondano nell’alluvione dell’uragano Katrina che lasciò senza tetto i neri dei quartieri poveri di New Orleans, balla al Superbowl vestita da Pantera Nera. Donald Glover, attore e musicista, con il nome d’arte di Childish Gambino si presenta sabato scorso a Saturday Night Live e mostra in anteprima un video sconvolgente, dove sorridendo fa strage di neri, e le sue armi vengono riposte con infinita cura mentre nessuno si dà pena per le vittime. Proprio Glover aveva totalizzato una ventina di milioni di clic sul suo video, via YouTube, in poche ore: finito sulle prime pagine dei giornali per quella scelta artistica sconvolgente — sparare sui neri nella massima impunità, nella massima serenità, ripetendo il ritornello “This is America”, “questa è l’America”, come uno schiaffo. E Daniel Day detto Dapper Dan, Dan l’elegantone, couturier dei neri, sarto dei rapper e di Mike Tyson nei primi anni Ottanta, ora riapre il suo storico negozio ma è un atelier di lusso, in collaborazione con Gucci. Dapper Dan viene invitato l’altra sera al ballo del Metropolitan. Lui che, una volta, non riusciva neppure a comprare articoli di lusso all’ingrosso perché i grandi marchi non volevano avere niente a che fare con Harlem e i suoi clienti (per sua stessa ammissione in buona parte papponi, spacciatori, gangster: ma non è che nelle vie dello shopping del lusso chiedano la fedina penale, al registratore di cassa). Lo stile dei neri è lo stile dell’America, this is America, punto.