di Valeria Verbaro (hollywoodreporter.it, 16 febbraio 2024)
“Exodus, movement of Jah people”, inizia così, con un viaggio, un movimento, un flusso, il brano che dà il titolo all’album più celebre di Bob Marley & The Wailers, Exodus appunto. Quello che espande i confini della musica reggae, trasformandola forse per sempre. Portando, forse, in secondo piano nella diffusione di massa, la potenza politica, culturale e religiosa da cui nasce.
È il 1977, Marley si rifugia a lungo a Londra dopo il tentato omicidio del 5 dicembre 1976, in cui lui, la moglie Rita e alcune persone della sua cerchia più stretta furono raggiunti e feriti da alcuni proiettili in casa dei Marley. Era la Giamaica sull’orlo della guerra civile e Bob Marley con The Wailers provava a portare la pace. Questo lo rendeva “colpevole”. E sovversivo. Lo racconta anche il film Bob Marley: One Love di Reinaldo Marcus Green, nelle sale italiane dal 22 febbraio. Bob Marley quindi fugge, rifiutando la violenza stessa che aveva messo in pericolo lui e la sua famiglia. In quell’allontanamento dalla Giamaica, verso il “cuore dell’Impero”, Londra, nasce l’album che apre il reggae al mondo.
Il reggae non è e non è mai stato solo un genere musicale. È l’espressione musicale di un credo religioso, di una dottrina socio-politica e di un’identità etnica: il rastafarianesimo. Come molti ritmi caraibici nasce dall’unione e dall’evoluzione di ritmi musicali preesistenti, in questo caso lo ska – a sua volta derivato dal jazz afrocubano, dal mento e dal calypso – e il nyahbingi, termine con cui ancora oggi si indica uno dei tamburi principali usati nel genere. Si distingue da altri ritmi più comuni o occidentali, come il pop e il rock, perché ha gli accenti sul levare (il primo e il terzo tempo, anziché il secondo e il quarto); oppure, come spesso si dice, perché batte il tre sulla cassa (della batteria).
E infatti le percussioni, la batteria nello specifico, sono gli strumenti che lo rendono più riconoscibile, anche perché hanno un significato ulteriore nella definizione del reggae. Rappresentano il collegamento diretto con l’Africa: con la musica africana sopravvissuta alla schiavitù, suonata dagli schiavi nei momenti di preghiera e convivialità, tanto che il tamburo resta lo strumento principale usato nelle cosiddette “groundations”, i riti religiosi rastafariani. “We know where we’re goin’, we know where we’re from, we’re leavin’ Babylon, we’re goin’ to our fatherland”: è sempre Bob Marley che canta in Exodus, spiegando un altro elemento essenziale del reggae e del rastafarianesimo.
Il rastafarianesimo nasce in Giamaica in opposizione alla dominazione coloniale britannica, nel momento in cui la popolazione giamaicana scopre la resistenza etiope al colonialismo italiano. Sono gli anni Trenta e il nome di questo culto, che si sviluppa nel frattempo anche come identità culturale, deriva da Ras Tafari, conosciuto comunemente come Hailé Selassié I, imperatore d’Etiopia dal 1930 al 1974. Selassié secondo il rastafarianesimo incarna la seconda venuta di Gesù Cristo, facendo così della religione rastafariana un culto monoteista derivato dal cristianesimo. Ma da esso divergente in diversi modi, primo fra tutti il principio per cui la divinità, Jah, sia una divinità immanente ed esista concretamente in ogni persona e in ogni cosa.
Il legame con il cristianesimo e, in generale, con le principali religioni monoteiste tuttavia pone per il rastafarianesimo un concetto fondamentale, quello del ritorno del popolo prescelto da Dio alla terra promessa. Quando Bob Marley canta “We’re leaving Babylon, we’re goin’ to our fatherland” è proprio a questo che si riferisce. I rastafariani riconoscono nel ritorno metaforico o effettivo in Africa un punto essenziale del loro credo. E lo comunicano attraverso il reggae. Babilonia è la terra colonizzata, la terra schiavizzata e sfruttata. La terra degli oppressori e degli oppressi. La terra dei padri, invece, cui spesso Marley stesso fa riferimento come Sion o Zion (Zion Train è un altro brano da ascoltare sull’argomento) è più un’idea, un concetto anziché un vero esodo.
Un concetto che deriva da pensieri filosofici, da movimenti storici e politici anche molto più ampi del rastafarianesimo e del reggae, come il Panafricanismo teorizzato da Henry Sylvester Williams, ma che in Giamaica viene formulato per la prima volta da Marcus Garvey, sindacalista e autore. Negli anni Venti, Garvey predicava il ritorno in Africa di tutte le popolazioni della diaspora nera e che sulla base di una profezia della bibbia amarica (etiope) aveva annunciato l’incoronazione in Africa di un re capace di estirpare il colonialismo e lo sfruttamento delle popolazioni africane. Profezia riconosciuta poi nell’incoronazione di Hailé Selassié, il cui simbolo, il leone coronato, è ancora presente nella bandiera del rastafarianesimo insieme ai colori dell’Etiopia.
“Jah come to break downpression, Rule equality, Wipe away transgression, Set the captives free”, prosegue Bob Marley in Exodus. E la quantità di volte in cui nomina il suo dio, Jah, e i principi del rastafarianesimo, non solo in questo brano ma in tutta la sua discografia, colpisce diversamente una volta che vi si presta attenzione. La musica è il messaggio, in un’identificazione totale e imprescindibile, tra uomo e dio, tra popolo e religione. Una visione del mondo e un urlo di liberazione tradotti entrambi in note, canti e accenti musicali.
La figura iconica e profetica di Bob Marley, diventata così pop nel corso degli anni – su ogni maglietta di qualsiasi ragazzino bianco preadolescente –, probabilmente allontana l’immagine comune dalle radici del reggae. Ma è “colpa” soltanto di chi ascolta senza sentire a fondo e di chi non è andato mai a riguardare un video dell’estasi mistica di Marley sul suo palco. È tutto lì, pronto a essere accolto, nella cassa che batte il tre.