di Giampaolo Pioli (quotidiano.net, 4 agosto 2021)
È ormai per tutti “la maledizione del 6 gennaio”. Molti la definiscono la “sindrome mortale dell’assalto al Congresso”. Ma a morire questa volta non sono i dimostranti trumpiani che hanno assalito il tempio della democrazia Usa, bensì i poliziotti chiamati a difenderlo. Ieri le autorità di Washington hanno annunciato che altri due di loro si sono uccisi. Il totale adesso è di quattro agenti che si sono tolti la vita dopo essere stati chiamati a difendere il Campidoglio dagli assalitori. Accusati di incompetenza, disorganizzazione e mollezza perché non sono riusciti a bloccarli ma sono stati anzi selvaggiamente picchiati, diversi di loro, dopo le tragiche ore di scontri sulle scalinate e senza l’arrivo dei soccorsi, sono entrati in depressione.
Alcuni si sono dimessi, altri sono in terapia, ma diversi non ce l’hanno fatta e si sono tolti la vita. Kyle DeFreytag aveva 26 anni. Il suo collega Gunther Hashida è stato trovato cadavere giovedì scorso, aveva 41 anni, di cui 18 trascorsi nelle forze dell’ordine. Nessuno dei due, probabilmente, avrebbe potuto immaginare la violenza di quella folla fuori controllo. A casa hanno portato i segni della battaglia visibili sul corpo, ma le ferite interne li hanno indotti a uccidersi dopo una lotta contro la depressione durata mesi. Si sono sparati un colpo con la pistola di ordinanza. Prima di loro si erano uccisi Jeffrery Smith e Howard Liebengood. “Non riusciva più a dormire, soffriva di privazione del sonno”, racconta la moglie di Howard. Una sofferenza insopportabile che lo ha condotto a togliersi la vita. Ora i familiari dei quattro agenti uccisi chiedono giustizia e che la loro venga riconosciuta come “morte in servizio”.
Quello che era considerato un corpo d’élite e super-addestrato è adesso nell’occhio del ciclone. Alcuni agenti sono addirittura stati accusati di aver favorito l’accesso agli assalitori e dovranno difendersi in un prossimo processo. La Camera guidata da Nancy Pelosi sta completando la composizione di una speciale commissione d’indagine bipartisan che verrà chiamata a far luce su quanto è accaduto. Dovrà fare un rapporto al Congresso, e suggerire misure e disposizioni affinché un episodio simile non si ripeta. Non è escluso però che lo stesso ex presidente Donald Trump venga chiamato a spiegare qual è stato il suo ruolo nella protesta, visto che molti manifestanti finiti in carcere per violenze hanno indicato lui come il vero regista e istigatore dell’assalto al Congresso. Con un’America sempre più spaccata in due, in cui, politicizzando anche il Covid-19, Camera e Senato – anche se a maggioranza dem – non riescono a trovare una linea di condotta comune e i repubblicani non sono affatto intenzionati a far luce sui fatti del 6 gennaio.
Il suicidio dei poliziotti di Capitol Hill è un forte segnale d’allarme per le forze dell’ordine della Capitale, che il 6 gennaio sono state sopraffatte da dimostranti anche armati. Questi ultimi due episodi gettano una luce sconcertante sul clima di tensione che si respirava nei primi giorni di gennaio a Washington, quando il vicepresidente Pence aveva il compito di ratificare proprio il 6 gennaio al Senato la vittoria di Joe Biden. Trump aveva invitato i suoi seguaci a marciare sul Campidoglio per bloccarne la proclamazione. Non c’è riuscito, ma invece di ammettere la sconfitta, e magari prepararsi alla rivincita nel 2024, istiga ancora gli irriducibili ad attendere un inesistente verdetto della Corte Suprema che, nella seconda metà di agosto, dovrebbe, secondo i complottisti, togliere la presidenza a Biden per riconsegnarla a Trump. Nulla di più surreale. Ma c’è un’America minore che ci crede, e questo fa paura. Sono gli stessi volti che hanno assalito il Campidoglio e non sono stati catturati, a differenza degli altri cinquecento che hanno picchiato i poliziotti con le aste delle bandiere americane e adesso sono sotto processo.