di Guia Soncini (linkiesta.it, 2 dicembre 2024)
A casa mia è successo tutto nello stesso momento, ieri pomeriggio. Stavo ascoltando un podcast con ospite Gianni Morandi, e scrivendo bestemmie all’amica che me l’aveva segnalato: ma ti pare che mi fai sentire questo intervistatore che non sa niente, questo cane che come tutti i conversatori scarsi tenta di finirgli le frasi senza mai mai mai capire dove Gianni vada a parare, questo cane bau.
Stavo ascoltando Gianni Morandi – la storia d’Italia, l’ho già scritto quattrocento volte – che compie ottant’anni tra nove giorni ed è famoso da più di sessanta, Gianni Morandi che compie sì ottant’anni ma quest’anno In ginocchio da te ne compie sessanta, Gianni Morandi che raccontava cambiando a favor di drammaturgia alcuni dettagli la sua vita che già aveva raccontato a teatro, ma figurarsi se quelli che fanno i podcast vanno a teatro, leggono qualcosa, sanno mai niente.
Stavo pensando a Gianni Morandi che è il Novecento forse più di qualunque altro vivente che venga da quel secolo, a Gianni Morandi che se volessi scrivere una storia d’Italia scriverei di lui, a Gianni Morandi che quando negli anni Settanta ha una crisi di popolarità gli dicono “perché non ti metti a studiare, che non sai niente”, e lui che è stato famoso nell’epoca in cui esisteva la fama va al Conservatorio, invece di accendere la telecamera del telefono e dire a TikTok che gli hanno detto di studiare: bullismo, celebricidio, oppressione patriarcale.
Lo so che a questo punto dovrei dirvi cos’è successo mentre ascoltavo Morandi, ma mi scappa una divagazione (strano, puntesclamativo). È un articolo che esce sull’Evening Standard a marzo del 1966, parla d’un gruppo musicale di cui forse avete sentito parlare, e mi viene in mente quando Morandi racconta al suo indegno intervistatore qualcosa di quegli anni, di quando se provava ad andare al cinema dovevano sgomberare la sala per l’isteria collettiva. «È stato di questi tempi tre anni fa che i Beatles divennero per la prima volta famosi […] Gli osservatori preconizzarono la fine dei vecchi Beatles e cercarono diligentemente i nuovi Beatles (il che aveva senso come cercare il nuovo Big Ben). Alla fine si sono arresi: la fama dei Beatles trascende ogni dibattito. Non ha niente a che vedere col loro essere compìti o cafoni, sposati o no, venticinquenni o quarantacinquenni; con l’andare a Top of the Pops o il non andarci […] Sono famosi nel modo in cui lo è la regina».
Ecco, quella fama lì non esiste più, l’abbiamo scritto in mille negli ultimi decenni, non è esattamente un’osservazione originale. Di recente qualcuno che aveva chiamato i paparazzi per farsi fotografare ha raccontato che c’era stato un inseguimento e che le foto erano uscite per quello, e chiunque sappia quanto guadagna ora un paparazzo ha riso fino alle lacrime: ma certo, l’inseguimento, Diana Spencer ma con le tariffe di quasi trent’anni dopo. Il che non vuol dire che – nel secolo in cui chiunque sia famoso come la regina e i Beatles è un relitto del secolo scorso (da Sophia Loren a Marco Tardelli), e chi è famoso di fama recente è famosissimo per chi lo segue sui social e lo vede pure al cesso, e un perfetto sconosciuto per tutti gli altri – non esistano l’invadenza della fama, i guai della fama, l’incubo della fama moltiplicato dal fatto che chiunque ha un telefono con cui paparazzarti.
Mara Venier ha detto alla Fagnani che uno dei portati positivi della celebrità è che ti trovano sempre un tavolo al ristorante, che è una cosa che dicono tutte le persone famose: ci metti un’ora a fare cinquanta metri in loro compagnia, chiedi come facciano a fare questa vita d’inferno, e loro “eh però mi trovano sempre il tavolo”, e io ogni volta mi chiedo di cosa diavolo parlino. Primo: se vai nei ristoranti che conosci, il tavolo te lo trovano anche se fai il commercialista. Secondo: se sei davvero famoso, al ristorante non ci vai proprio (a meno che non abbiano una saletta nascosta in cui puoi mangiare senza rotture di coglioni: Maria De Filippi la vedi sempre uscire dai ristoranti e, se non sai il trucco, ti chiedi dove sia stata fino ad allora, hai mangiato lì e mica l’hai vista). Ma perlopiù, come dice una mia amica famosa, se voglio parlare dei cazzi miei senza che qualcuno origli, mangiamo a casa.
Esistono ancora le rotture di coglioni della fama, e c’è chi le prende meglio e chi peggio. L’anno scorso una sera ho visto arrivare Gianni Morandi in un posto pubblico con la mascherina, e mi sono chiesta se stesse finendo il mondo. Francesco Totti aveva raccontato che la pandemia era stata il momento in cui poteva girare per Roma senza che lo assediassero, finalmente la mascherina gli donava l’anonimato, ma Gianni no, Gianni l’assedio lo cerca. Poi era venuto fuori che aveva avuto un problema di salute, e ho accolto la notizia quasi con sollievo: non è cambiato, gli piace ancora che lo fermino in mille per chiedergli la foto, insegna ancora ai fan a che angolazione fare l’autoscatto, accoglie ancora l’assedio con calma e voluttà.
Fine divagazione. Ascoltavo dunque Gianni Morandi, quando è arrivata la notizia che a Sanremo ci saranno Fedez e Tony Effe. Mica insieme (sennò mi si svuota il potenziale pettegolo, semmai la riconciliazione deve avvenire lì), ma insomma Fedez si riappropria di quell’identità messa in ombra in questi anni in cui è stato il-marito-della-Ferragni: ah, già, era pure uno che faceva le canzoni.
Una sera dell’anno scorso ero a cena con gente della musica, si parlava del pezzo deludente d’un cantante che una volta ha fatto un pezzo moschicida, e io ho detto che avevano troppe pretese, che un pezzo pazzesco può capitare ma non per questo si riesce a farne uno all’anno, un pezzo moschicida ce l’hanno quasi tutti, ce l’ha avuto persino Fedez. Dopo un po’ mi sono accorta che più nessuno partecipava alla conversazione, stavano bisbigliando tra di loro, e a stretto giro hanno delegato una bionda a domandarmi l’indomandabile: ma quale sarebbe il pezzo moschicida di Fedez?
Ma starete scherzando. Vorrete mica mentire e dirmi che non squarciagolate “Si vive una volta sola ma tu vali due” e altre frasette moschicide di quello spot della Coca-Cola con tutte le vocali aperte, che se siamo fortunati ce la fanno nella serata delle cover. Dice che quest’anno possono duettare tra loro, i concorrenti, e qual è il senso di avere in gara sia Fedez sia Achille Lauro se non per cantarci sa-sa-sa sabato sera? Dice Gianni Morandi in quel podcast che, quando nel 2022 è andato a Sanremo con Apri tutte le porte, a Sanremo che aveva già vinto e condotto e tutte cose, ci è andato perché Sanremo da ospite non serve a niente, non sposta niente, a Sanremo devi gareggiare, devi sporcarti, e lo dice mentre io leggo i nomi e fantastico d’un pareggio.
Del gran sgarbo coniugale – quella puttanata di Fedez che baciava un maschio col nome da donna arrubbando la scena alla moglie conduttrice, e l’Italia che per mesi trattava la questione come fosse seria, compresi loro stessi che ci facevano una dolente puntata di documentario coniugale in cui una robetta televisiva veniva trattata come avesse ingravidato la governante – che viene pareggiato al Sanremo 2025. Dove a nessuno importerà più nulla delle canzoni in gara perché, la sera delle cover, arriverà in platea Chiara Ferragni e intonerà In ginocchio da te, chiedendo all’ex marito di tornare da lei. E le risponderà Achille Lauro, c’è anche già l’orchestra pronta: hai risolto un bel problema, però te ne restano mille.