di Massimo Adinolfi (huffingtonpost.it, 11 dicembre 2021)
Un discorso sopra lo stato presente del costume della filosofia italiana dovrebbe forse muovere dalla stessa situazione in cui era Giacomo Leopardi. Il passeggio, gli spettacoli e le chiese: la società italiana – diceva il poeta di Recanati – a conti fatti si riduce a questo. Ma le chiese pesano oggi molto meno che allora, mentre il passeggio, in tempi di pandemia, è sottoposto a severe limitazioni: restano gli spettacoli a far la società. Ora, che spettacolo dà di sé la filosofia? Non il migliore, a considerare quel che si è potuto ascoltare a Torino, durante i lavori della neonata Commissione Dubbio e Precauzione.
Sui dubbi e le precauzioni non vorrei però tornare: se avessero voluto filosofeggiare davvero, avrebbero fatto bene a impegnare la lunga giornata chiedendosi anzitutto che cos’è un dubbio, come si esercita, come lo si coltiva, quando ha ragione di essere e quando invece è solo un sofisma, quando è fondato e quando invece è pretestuoso, con quali argomenti lo si porta avanti, in quali contesti e regimi di discorso, a quali fini e con quali conseguenze, e così via. Ma così non è stato, visto che si è potuto ascoltare di tutto, e sotto quella pregevole intestazione sono passati per dubbi cose molto diverse tra loro: poche ragionevoli, molte strampalate. Però non importa: Giorgio Agamben, il più illustre tra i partecipanti, ha detto che quello non era un convegno: i convegni sono infami, diceva (giustamente) Deleuze, e di sicuro, ha aggiunto Agamben, nessuno in epoca nazista avrebbe mai pensato di riunire la resistenza a convegno. Non gli è sicuramente sfuggito che la resistenza, Hitler imperante, non faceva convegno perché a convegno non poteva riunirsi neanche se avesse voluto, a differenza dei dubbiosi amici torinesi. Ma neanche di questo vorrei parlare.
Vorrei invece fare un paio di brevi osservazioni muovendo dal credito o discredito che la filosofia italiana guadagna da tutta questa vicenda. Con una premessa (faticosa: me ne scuso con i lettori), che dispiacerà a quanti, filosofi o no, sono convinti che la produzione del sapere filosofico dovrebbe osservare le stesse regole – per non dire lo stesso metodo – che osserva il sapere scientifico. Così non è, in realtà. Non è così nei fatti, e su questo non c’è discussione (e c’è anzi chi proprio di ciò si lamenta, e ne trae la sbrigativa conclusione che quindi non vale la pena perder tempo coi filosofi), ma non è così neanche in linea di principio, perché se così fosse verrebbe meno il luogo in cui di quel metodo o di quelle regole si intende far questione («motivatamente» questione: l’avverbio è importante, anzi decisivo, e farebbe, qualora osservato – osservato anche a Torino – la differenza fra il rigore filosofico e il tana liberi tutti). A non dire infine che «scienza» e «sapere» non sono sinonimi neanche di striscio: non lo sono per un filosofo, che non si dirà mai scienziato, né per uno scienziato, che tuttavia si spera non pensi per questo di potersi sbarazzare della filosofia, né per nessuno di noi altri, che assistiamo più o meno volentieri allo spettacolo.
Premesso tutto ciò, a Torino non c’era «la» filosofia italiana. Non vorrei che la cosa suonasse troppo burocratica (è solo una prima considerazione), né vorrei che si pensasse che si fa filosofia solo da una cattedra universitaria (le cattedre universitarie sono infami), ma insomma, se uno guarda ai docenti in organico nelle università italiane trova che della Commissione Dupre ne fa parte un numero molto, molto piccolo. Non ho fatto calcoli, ma penso che la percentuale sia inferiore a quella dei no vax sul totale della popolazione italiana. Quindi: tranquilli. Ma c’era Cacciari! Ma c’era Agamben! È vero, e c’erano anche altri autorevoli studiosi, di cui – per quel che vale – ho sincera stima. Ma neanche così è possibile mettere le cose come se la filosofia italiana fosse rappresentata da, o allineata su, le loro posizioni (né è quanto essi mi pare pretendano). Né credo sia necessario far nomi di filosofi altrettanto autorevoli (ce ne sono), che considerano a dir poco rovinose le posizioni assunte da Cacciari e Agamben.
Di cosa si tratta, allora? Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia. Sto citando – devo dirvelo – il titolo di un libro di Jacques Derrida, uno di quei filosofi che gli spregiatori del pensiero continentale mai si sognerebbero di citare, mettendolo anzi volentieri tra i venditori di fumo. Obscurum per obscurius, si diceva una volta: le oscurità dei primi due, dei Cacciari e degli Agamben, giudicate per il mezzo di un pensatore ancora più oscuro, Derrida! Ma io ho bisogno di distinguere: penso infatti che un conto sia il tipo di esercizio critico al quale la filosofia praticata da Cacciari e Agamben abitua, un altro il tono che questo esercizio ha assunto nelle ultime esternazioni. Bisogna però sapere di quale esercizio parliamo, prima ancora di occuparsi del tono. Perché la ricerca filosofica è ampia e varia, in Italia e nel mondo. C’è chi fa ottimamente filosofia a distanze siderali da Cacciari e da Agamben.
Ci sono fior di filosofi della scienza, di filosofi del linguaggio, di filosofi della mente che proprio non sanno che farsene dei loro libri (e la cosa è ovviamente reciproca). Ma c’è una cosa che una volta si chiamava metafisica, oppure filosofia prima, o anche filosofia speculativa, e che oggi in genere si indica come filosofia teoretica (neanche questi sono sinonimi, ma termini abbastanza strettamente imparentati fra di loro), che non fa filosofia della scienza, perché si domanda prima: che è scienza? E fa lo stesso a proposito del linguaggio, della mente, e di ogni altro oggetto che si trovi su piazza. Che se mai ha un rapporto privilegiato con l’arte o con la teologia, ma non perché debba soddisfare chissà quali bisogni spirituali, né, peggio, perché cerchi semplicemente di sfuggire alle grinfie severe della scienza, ma perché le capita di trovare in quei mondi risorse e attitudini critiche analoghe (a volte a ragione, a volte no). Una filosofia, infine, che ha volentieri calcato il terreno della politica e dell’uso pubblico della ragione, perché (provo a dirla così) non gli vien facile mettere tra parentesi il mondo della vita (così lo chiamava Husserl) da cui provengono tutti i discorsi degli uomini.
E qui, però, casca l’asino. O il filosofo. Che porta volentieri la stessa radicalità con cui affina le sue categorie prime e ultime a ridosso non solo della politica (e passi), ma proprio della cronaca (ed è più difficile farlo passare). Non è un tratto specificamente moderno, ma di sicuro con la spinta rivoluzionaria della modernità si è accentuato. E non è un tratto specificamente italiano, anche se in Italia la filosofia ha tradizionalmente vocazione civile, che ne costituisce quasi un tratto identitario: i suoi migliori filosofi – da Machiavelli a Vico a Gentile – ne sono esempio. Dopodiché, cosa è accaduto? Dirò un po’ all’ingrosso: che a questa filosofia, un po’ per ragioni storiche, un po’ per difetto congenito, sono venuti in voga i discorsi della fine – fine della Storia, fine di Dio, fine della lotta di classe, fine della democrazia, fine dell’Occidente, fine di tutte le cose – come se non pensasse veramente, con la necessaria radicalità, chi non avesse almeno una fine da denunciare. Se uno infatti legge Agamben, nota subito questo tono: c’è sempre un «inaudito» che si annuncia: vuoi in un inavvertito passaggio epocale, vuoi in una inedita postura etica, vuoi infine in una nuova, immancabilmente agghiacciante decisione politica. Ed è questo nesso troppo stretto fra ontologia e politica, e il lutto mal elaborato per una rivoluzione mai avvenuta, che fa precipitare irreparabilmente le cose.
Può darsi allora che, proprio come Kant (da cui prende avvio il saggio di Derrida) si doleva del fatto che inseguendo simili apocalittici toni la filosofia rinunciasse ad essere «saggezza di vita perseguita con metodo», così certi filosofi, disdegnando le mezze misure, stimino di troppo piccolo formato le vie mediane del diritto e le inevitabili imperfezioni delle istituzioni democratiche disponibili. Completamente svuotate, dice, in effetti, uno sconsolato Cacciari, e uno gli vorrebbe chiedere come pensa allora di riempirle (essendo esclusi i convegni), o anche se non ci sia qualcosa da temere da forme politiche troppo piene. Ma tutto questo riguarda il tono e la postura, lo spettacolo e la convegnistica. Non la filosofia teoretica, non l’intera filosofia italiana, e nemmeno, per fortuna, la filosofia di Giorgio Agamben e di Massimo Cacciari. Che sono e restano tra i maggiori pensatori contemporanei.