La fallimentare svolta ideologica della Disney

di Riccardo Manzotti (linkiesta.it, 8 dicembre 2023)

Secondo un detto latino, gli Dei fanno impazzire chi vogliono distruggere; una frase che ben si adatta al declino della Disney, determinato in gran parte dalle scelte artistiche della compagnia. Prima di tutto una premessa: la Disney è il più grande colosso mondiale nell’industria dei media; una multinazionale che include società quali la Pixar, la Lucasfilm e la Marvel. Com’è possibile che questo gigante dell’intrattenimento veda un declino a livello globale?

Ph. Thomas Kelley / Unsplash

La risposta è che, per quanto il potere finanziario sia forte, non può vincere contro un’altra grande forza: la cultura pop, fatta di storie che hanno un valore per il pubblico. E questo valore non è modificabile a piacere da una società, per quanto influente.

Partiamo dall’ultimo caso eclatante, il film The Marvels, che è stato uno dei più grossi fallimenti della casa del Topo; costato oltre trecento milioni di dollari (spese di marketing escluse), ha finora incassato meno di duecento milioni complessivi (meno di ottanta sul mercato statunitense) e ha collezionato ogni sorta di record negativi a partire dal crollo di spettatori di oltre l’ottanta per cento dopo il primo weekend (primi di novembre). Non ci interessa qui entrare nel merito del disastro artistico di una pellicola che è nata fra mille polemiche ed è stata persino disconosciuta dalla sua regista Nia DaCosta; ciò che ci interessa è che questo disastro è l’epilogo di una storia iniziata circa vent’anni fa (anzi di due storie, come vedremo) e che oggi sta portando la più grande casa mediatica al mondo (la Disney) a crollare sotto il peso di una serie di fallimenti a catena.

La Marvel ha costruito un modello mediatico che, a partire del primo Iron Man, nel 2008, è stato una garanzia di successo. La formula era semplice: portare gli eroi classici dei fumetti della Marvel in un universo cinematico (da cui il fortunato acronimo Mcu, Marvel Cinematic Universe) coerente, dove ogni film terminasse annunciando qualche futura avventura; un trucco realizzato grazie alle famose scene dopo i titoli di coda (post credit scene o credit cookie) che stimolavano il desiderio dei fan. Tutto è andato per il meglio, al punto che la concorrenza ha spesso cercato di realizzare qualcosa di analogo (un caso fra tutti: la Warner Bros con il DC Comics Cinematic Extended Universe o Dceu) ma senza riuscire a emulare la magia della Marvel.

Tutto è andato bene fin quando Disney ha iniziato a mescolare alle sue storie l’ideologia in voga oggi in California, un’ideologia che mescola il femminismo di terza generazione con la cosiddetta cultura woke: una visione della società secondo cui le figure femminili sarebbero ingiustamente messe in secondo piano e asservite a una visione del mondo maschile. La Disney, desiderosa di assecondare questa cultura, si è così mossa cercando di correggere la rotta e di dare maggiore spazio a personaggi femminili al posto di quelli maschili. Tuttavia, qui c’è un equivoco di fondo. Un conto è dare spazio a personaggi femminili, come più di una volta è successo (Ripley di Alien, Katniss Everdeen di Hunger Games, Alice in Resident Evil, Eleven in Stranger Things e così via). Un’altra cosa è modificare trame che avevano già una loro logica e tradizione per riscriverle e modificarle secondo una visione del mondo imposta a forza.

Purtroppo questa tendenza a voler riscrivere stalinianamente il proprio passato mediatico è diventata una tendenza dominante all’interno della Disney. Prendete l’altra grande società della Disney, ovvero la Lucasfilm, ceduta dal suo creatore George Lucas nel 2012 per quattro miliardi di dollari e da allora guidata da Kathleen Kennedy. Improvvisamente, con grande sgomento dei fan storici della saga di Star Wars, i vecchi personaggi, colpevoli di essere maschi e bianchi, sono stati poco cerimoniosamente eliminati (Ian Solo ucciso da suo figlio, Luke Skywalker prima umiliato in una serie di scene patetiche e poi eliminato senza una reale catarsi) per mettere al centro delle vicende l’ennesima figura femminile forte, Rey, che, senza un reale percorso narrativo, è imposta come eroina. Guardiamo al box office. Questa scelta di imporre figure femminili in sostituzione di ruoli maschili ha pagato? Si direbbe proprio di no: i proventi si sono dimezzati nel giro di tre pellicole (la prima aveva raccolto due miliardi e l’ultima poco più di uno).

In modo analogo, gli spin-off centrati su figure femminili (Ahsoka) non sono stati ben accolti dal pubblico e anche altre produzioni collegate hanno avuto un riscontro sempre minore (The Mandalorian, The Book of Boba Fett). Kathleen Kennedy, ceo della Lucasfilm, è stata responsabile anche di un altro caso di omicidio mediatico: l’ultima pellicola dedicata all’ormai ottantenne Indiana Jones, ovvero Indiana Jones and the Dial of Destiny. Anche in questo caso, non differentemente dagli eroi di Guerre stellari, il coraggioso e anticonvenzionale archeologo è stato umiliato e messo da parte da un nuovo personaggio femminile, Helena Shaw, interpretata da Phoebe Mary Waller-Bridge, che ne mostra limiti e difetti e, alla fine, lo congeda in un pensionamento forzato dove dovrà riparare alle sue mancanze coniugali. Il risultato commerciale di questa pellicola è stato (come stupirsene) disastroso.

Uno potrebbe vedere una regola che si ripete e che non ha colpito solo la Disney, ma anche altri celebri franchise. Ne cito solo un paio: la saga di Star Trek e il Doctor Who. Si tratta in entrambi i casi di veri e propri mondi creati negli anni Sessanta e Settanta, il primo negli Stati Uniti e il secondo in Inghilterra. Con fortune alterne, sono passati attraverso numerose generazioni di spettatori e hanno conosciuto numerose reincarnazioni che ne hanno tenuto viva l’anima pur in contesti e con linguaggi diversi. Poi, negli ultimi dieci anni, hanno dovuto subire il restyling woke, ovvero vedere il protagonista sostituito da una figura femminile forte (nel caso di Star Trek il nuovo capitano è Michael Burnham (intrepretato da Sonequa Martin-Green) e il nuovo Doctor Who è stato interpretato da Jodie Whittaker. Entrambe le serie hanno visto un deciso crollo degli ascolti.

L’elenco potrebbe essere molto lungo – She-Hulk: Attorney at Law, Wanda Vision, Black Widow, Black Panther: Wakanda Forever, Star Trek: Picard, Ghostbuster 2016, Wonder Woman 1984 –, e si ripete lo stesso schema revisionistico: si prendono storie che avevano avuto al loro centro personaggi maschili (e tendenzialmente bianchi) e vengono riscritte sostituendo poco cerimoniosamente questi personaggi con personaggi considerati più inclusivi (spesso l’inversione è di genere con un personaggio femminile, altre volte è etnico come nel caso de La Sirenetta, oppure è di orientamento sessuale). Un caso emblematico è stata la costosissima serie di Amazon ispirata al Signore degli Anelli, The Rings of Power, centrata su una figura femminile, l’elfa Galadriel, interpretata da Morfydd Clark, che è stata un ennesimo, immancabile fallimento mediatico.

A questo punto, potremmo chiederci come mai queste case cinematografiche insistano su una formula che sembra far perdere loro il pubblico tradizionale senza fargliene guadagnare di nuovo. Possiamo identificare alcuni fattori ricorrenti. Il primo è la sensazione che le società coinvolte si sentano depositarie di una visione del mondo superiore a quella del loro pubblico. Purtroppo nel mondo dei media è molto pericoloso reputarsi migliori dei propri spettatori. Il secondo è che l’ideologia è sempre nemica della creatività e che l’intenzione di imporre forzatamente degli schemi alle storie porti inevitabilmente a scrivere brutte storie e brutti personaggi. Il terzo è che queste cosiddette figure femminili forti non sono affatto tali, ma sono caricature di figure maschili forti interpretate da personaggi del sesso opposto. Il quarto è che in molti di questi film il successo da parte di un personaggio femminile è imposto non da dinamiche interne alla narrazione, ma dall’esterno del film stesso, creando dei personaggi che sono stati definiti delle “Mary Sue”, un soprannome che identifica qualcuno che ha successo non per i propri meriti ma per decisione degli sceneggiatori.

Infine, molti di questi film sembrano giustificare il successo dei personaggi femminili controbilanciandoli con una concezione negativa dei personaggi maschili. Quasi sempre deboli, impacciati, inutili quando non cattivi, crudeli, insensibili: una misandria diffusa che appesantisce trame e fa perdere spettatori (di entrambi i sessi): così come al pubblico maschile non piace vedere storie dove le donne vengono umiliate, così al pubblico femminile non piace vedere trame che presentano delle figure maschili patetiche e infelici.

Questo fallimento mediatico della cultura woke, ufficialmente inclusiva e femminista ma in pratica spesso misandrica e fondamentalista, è diventato il punto centrale di una vera e propria guerra culturale che, negli Stati Uniti, si manifesta anche in sedi più sofisticate delle sale cinematografiche, come le università e i seggi elettorali; al punto da aver coniato il detto «Get woke get broke» («Diventa woke e poi fallisci»). A novembre questa guerra è diventata persino il tema della popolarissima serie South Park con l’episodio ormai celebre Joining the Panderverse, dove la protagonista è proprio Kathleen Kennedy che, con la scusa di presentare versioni inclusive e attente alla diversità, non fa altro che rimbambire il suo pubblico presentando versioni ricicciate dei classici Disney e Lucas dove l’unica differenza è che i protagonisti maschili sono sostituiti con versioni femminili, gay e possibilmente etnicamente non caucasiche. Nell’episodio si riassume tutto questo con il motto «Put a chick in it and make her lame and gay» («Metti una donna e rendila noiosa e gay») che poi è esattamente quello che si è contestato a The Marvels, ovvero di scegliere una cinematografia ruffiana (come ha scritto Lorenza Negri).

Insomma, quello che si vede oggi nel mondo mediatico non è nuovo. Si vede come l’ideologia non sia un terreno fertile per la creatività e come la libertà non possa esprimersi in un mondo preoccupato – attraverso l’inclusività e la presunta difesa della diversità – di essere prima buoni e corretti e poi veri e interessanti. Voler veicolare a tutti costi un messaggio spegne l’anima dei racconti che hanno, per decenni, intrattenuto generazioni di spettatori. Ma la vera domanda, alla fine, non può che essere una: se le grandi case cinematografiche vedono ridursi i profitti, che cosa le spinge a privilegiare l’ideologia sulla creatività e sul valore delle storie? E questa domanda non può che farci riflettere sulla direzione di una società dove la pretesa ipocrita di essere migliori domina sulla realtà.

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