di Andrea Martella (huffingtonpost.it, 26 giugno 2020)
Puoi pure essere stato indiscutibilmente un fuoriclasse, essere diventato un grandissimo allenatore e aver vinto la Champions e la Coppa intercontinentale o come si chiama adesso, ma ogni volta che ti vedrò per me sarai sempre quello sfocato che scendeva le scalette per lo spogliatoio lasciandoti alle spalle la Coppa, bella, in primo piano, dopo essere stato espulso nella finale dei Campionati del mondo del 2006.
Non so perché, ma questa di Zinédine Zidane è l’immagine che mi è venuta in mente quando ho visto Vittorio Sgarbi, non certo un campione del mondo, ma comunque un noto storico dell’arte e, casualmente, anche un deputato della Repubblica Italiana, trascinato fuori dalla Camera dopo essere stato, appunto, espulso ed essersi rifiutato di uscire con le sue gambe.
Il fatto ha letteralmente folgorato il web, scatenando il classico profluvio di meme e fotomontaggi. Sgarbi si è ritrovato protagonista della Deposizione di Caravaggio o della Deposizione Borghese di Raffaello, ma è stato anche catapultato nella gara 1 delle finali Nba del 2008 tra Los Angeles Lakers e Boston Celtics nei panni di Paul Pierce, il giocatore che fu accompagnato fuori dal campo sulla sedia a rotelle dopo un infortunio subito nel terzo quarto, un’immagine che è rimasta nella storia del basket americano.
Si è discusso molto nei giorni scorsi, con gli occhi puntati sui notiziari che rilanciavano i filmati provenienti dalle manifestazioni causate dall’uccisione di George Floyd, sull’opportunità di abbattere statue, pratica largamente diffusa nelle rivoluzioni, nelle contestazioni, nelle ribellioni, eventi che, ad ogni modo, difficilmente tengono conto del bon ton e del galateo (e neanche dei regolamenti parlamentari). La diatriba non riguardava solo il supposto contenuto artistico delle opere, il loro essere eventualmente “arte” prima che essere belle o brutte, quanto il significato storico di un giudizio sull’operato del soggetto ritratto in effige tridimensionale. Si discuteva sulla legittimità dell’atto di decretare la conclusione di un periodo e l’inizio di un altro, in cui non sarebbe stato più possibile accettare l’esaltazione artistica (e quindi pubblica) di un personaggio con un passato giudicato discutibile. Ecco, l’immagine di Sgarbi rimorchiato verso l’uscita della Camera a me non ha dato l’impressione della fine di un mondo. Sgarbi continuerà infatti a fare quello che ha sempre fatto, solo con quel pizzico di non necessaria popolarità in più che un hashtag di tendenza può darti per 24/48 ore. Quell’immagine mi ha fatto pensare più alla necessità di rivedere le nostre scelte relative non tanto all’attribuzione di popolarità, quanto alla conferma di popolarità. Siamo nell’era degli -ismi, infatti c’è un termine anche per questo: si chiama giustificazionismo. Quell’idea per cui, in grande, i treni arrivavano in orario e, in piccolo, come parla di Michelangelo lui nessuno.
Ora, lasciando stare il revisionismo storico e restando ai piccoli fatti della nostra piccola contemporaneità, magari anche della nostra ancora più piccola contemporaneità artistica, è qualcosa che va ben oltre il quarto d’ora di popolarità di cui parlava Andy Warhol, qui si tratta proprio della popolarità che non ti abbandona mai perché ormai sei un “personaggio” e va tutto bene perché tu sei così e fai notizia proprio per quello, prendere o lasciare.
Signo’ so’ tre etti e mezzo, che faccio lascio? Io lascerei, grazie. Ogni tanto, almeno, lascerei.
Come ho letto sul web qualche giorno fa, nei giorni delle secchiate di vernice rossa sulla statua di Indro Montanelli, più che i monumenti sarebbe il caso di cominciare ad abbattere i piedistalli.