di Antonio Gurrado (ilfoglio.it, 9 aprile 2021)
C’è una cosa che m’interessa moltissimo della poetica di Amanda Gorman: i soldi. Non mi riferisco solo al fatto che l’edizione italiana di The Hill We Climb costi dieci euro per centocinquanta versi, stampati solo recto una strofa per pagina senza testo a fronte né note esplicative, mentre in casa ho l’edizione critica di una raccolta di tragedie di Shakespeare pagata dodici euro e novanta. Mi riferisco piuttosto a quanto la stessa Gorman dichiara a Vogue, di avere finora rinunciato a complessivi diciassette milioni di dollari che le erano stati offerti per far pubblicità a questo e a quello. La Gorman spiega di aver rifiutato di fare da testimonial perché le offerte provenivano da aziende che “non le parlavano”.
Ciò induce a tormentosi enigmi: quali aziende possono ritenere più utile avere come testimonial un poeta anziché un attore o uno sportivo di successo? Come avrebbe reagito il pubblico al lancio sul mercato di un dopobarba raccomandato da Andrea Zanzotto o di una catena di sushi raccomandata da Edoardo Sanguineti? E perché questa conversazione si svolge su Vogue e non su una rivista letteraria? Fatto sta che la medesima Gorman non esclude, in futuro, di fare da testimonial a prodotti di aziende che “le parlino”. Allora sapremo che l’avrà fatto per il profondo coinvolgimento emotivo, mica per soldi. È questa la nuova bohème.