La Cina e tutti i regimi autoritari che provano a ripulirsi l’immagine con lo sport

di Lucio Palmisano (linkiesta.it, 28 ottobre 2019)

«Calcio e politica non possono dormire nello stesso letto». La frase tanto perentoria dell’ex attaccante del Real Madrid Jorge Valdano in un’intervista a El País di qualche giorno fa lascia più di qualche dubbio. Lo sa bene anche lui come il calcio, e più in generale lo sport, tenda spesso e volentieri a fare rima con politica e affari.

Ph. Fred Dufour / Pool / Afp
Ph. Fred Dufour / Pool / Afp

Un esempio fu proprio il Mondiale di Calcio del 1978 giocato a casa di Valdano, nell’Argentina dei colonnelli guidata dal generale Videla. Una Coppa del Mondo tra le più ipocrite che si ricordi, giocata mentre nel chiuso delle stanze governative venivano torturati e uccisi migliaia di oppositori nel silenzio della comunità internazionale.

È inutile far finta di nulla: i grandi eventi sportivi internazionali sono sempre stati un’ottima vetrina per la politica per dare una nuova immagine di sé, anche se spesso falsa. In tanti lo hanno fatto, come il presidente Mobutu Sese Seko, sanguinario dittatore dello Zaire, oggi Congo, che nel 1974 decise di dare una nuova immagine del suo Paese. Come? Ospitando un grande evento internazionale. Uno dei più importanti che il pugilato ricordi: il celeberrimo “Rumble in the jungle”, l’incontro tra Muhammad Ali e George Foreman valevole per il titolo dei Pesi Massimi. Un incontro che ha segnato la storia di questo sport, ma che ha dato anche la possibilità a Mobutu di consolidare ulteriormente il suo potere.

Non ci sono, però, solo esempi storici. Anche oggi ne troviamo tanti. Ultima, in ordine di tempo, la decisione della Fifa di portare il primo Mondiale per club nel 2021 in Cina. Inutile il cartellino giallo di Amnesty International, che ha ricordato al massimo organismo del calcio mondiale come una simile scelta possa dare a Pechino il pretesto per offrire al mondo l’immagine di un Paese tollerante e rispettoso dei diritti umani. Un semplice specchietto per le allodole, che non risponderebbe al vero. Lo raccontano le tante voci dissidenti silenziate e il massacro delle minoranze, come gli uiguri nel Xingjiang.

Il Mondiale per club sarà un’occasione troppo ghiotta per il governo di Xi Jinping per mostrare il suo volto migliore. A cui in tanti sembrano credere, in primis il presidente della Fifa Gianni Infantino che non ha preso in considerazione possibili ipotesi alternative. Sembra chiaro come le lamentele siano decisamente superflue. Lo sport non può fare a meno del grande business cinese solo per i diritti umani: pochi mesi fa la nazionale spagnola di Pallacanestro ha vinto i Mondiali organizzati dalla Federazione proprio nell’ex Celeste Impero. Un mal comune che di certo non è mezzo gaudio.

Un discorso molto simile si può fare anche per il Mondiale di Calcio per nazionali del 2022 in Qatar. Una vetrina di grande prestigio per il piccolo Stato emiratino, che sta cercando in qualunque maniera di nascondere le possibili fonti di imbarazzo. Come la libertà di stampa praticamente inesistente (nel 2018 il Qatar era appena 125esimo in classifica), le discriminazioni verso le donne, gli abusi e le violazioni dei diritti umani. Dettagli che sembrano non interessare le comunità calcistiche internazionali. Nessuno denuncia più la semi-schiavitù alla quale sono costretti lavoratori indiani, nepalesi, indiani e filippini, costretti a turni massacranti con paghe irrisorie per completare stadi e strutture destinate a calciatori e tifosi. Chi muore sull’altare del Mondiale ormai non fa più notizia: la bella vetrina degli al-Thani, gli emiri del piccolo Paese arabo proprietari anche del club francese del Paris Saint-Germain, non deve essere rovinata.

Né tantomeno può essere rovinato il grande palcoscenico della Supercoppa Italiana, che a dicembre si giocherà nuovamente in Arabia Saudita. Le polemiche dello scorso anno su diritti delle donne, libertà di espressione e repressioni delle minoranze non fanno più notizia. Così come l’omicidio di Jamal Khashoggi, che un anno dopo sembra non interessare più a nessuno. Una vetrina importante che il regime saudita non farà a meno di usare ancora una volta, sfruttando la Lega di Serie A, che nel 2018 per circa sette milioni ha promesso di giocare tre delle prossime cinque finali della Supercoppa Italiana. Invece di minimizzare sarebbe ora di ricordare nuovamente come stanno le cose a Ryad. Farlo solo quando Cristiano Ronaldo e Ciro Immobile, simboli delle prossime finaliste Juventus e Lazio, si sfideranno in campo, potrebbe già essere troppo tardi.

Lo stesso si può dire a proposito della sede della prossima finale di Champions League, organizzata allo Stadio olimpico Atatürk di Istanbul. Vedere, il prossimo maggio, le due migliori squadre europee sfidarsi sotto l’occhio vigile di Recep Tayyip Erdogan sarebbe troppo. Sebbene la guerra contro i curdi paia essere arrivata a un compromesso più o meno accettabile, non è possibile fingere che l’attacco non sia avvenuto. Così come le minacce del presidente turco all’Europa, costretta al silenzio pur di non accogliere migliaia di migranti, che rimangono qualcosa di difficilmente accettabile per qualunque istituzione di buon senso. Eppure, il battage mediatico ormai ha deciso di non insistere più sulla questione. Un errore probabilmente, perché una simile concessione a Erdogan non andrebbe fatta. Proprio lui che oggi è il simbolo vivente della connivenza tra sport e politica, a solo beneficio della propria immagine.

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