
di Fabio Poletti e Cristina Giudici* (linkiesta.it, 4 aprile 2025)
Ci sono tanti uomini e soprattutto donne che in Medio Oriente stanno cercando di fare la differenza difendendo i diritti umani, in nome della democrazia cui aspirano. Non lottano contro l’Islam, il Corano o gli oltre due miliardi di fedeli nel mondo che professano la religione di Allah e il suo messaggero Maometto. Sono persone che rivendicano la libertà di culto, credono nella pace, nel diritto universale a non essere succubi di una teocrazia che impone loro come vestirsi, cosa pensare, in che modo vivere ed esprimersi.
La Fondazione Gariwo grazie alla rete internazionale dei Giardini che onorano Giusti e Giuste ha creato numerosi luoghi di confronto per chi crede nella libertà e ha fondato anche uno spazio informativo e divulgativo di ricerca permanente dedicato a chi si batte per i diritti umani perché merita di essere ricordato, onorato, conosciuto, adottato come esempio, monito e speranza per le nuove generazioni. Crediamo sia necessario fornire degli strumenti utili a tutti per orientarsi in un’epoca che pare molto cupa e invece è segnata anche da tante luci spesso oscurate da una narrativa in bianco e nero che elimina le sfumature.
C’è un minimo comun denominatore che lega le storie di questi uomini e donne, talvolta popoli interi, come gli Hazara in Afghanistan o i Rojava nel Kurdistan senza patria diviso tra Turchia, Iran, Iraq e Siria. Un filo rosso che passa i confini di Afghanistan, Arabia Saudita, Egitto, dell’Hazaristan afghano, del Kurdistan, Iran, Iraq, Libano, Mali, Marocco, Oman, Qatar, Sudan, Tunisia, i Paesi da dove vengono gli eroi e le eroine di questi drammi contemporanei.
Un filo rosso di sangue che accomuna chi si è opposto all’integralismo, sapendo di rischiare il carcere se non peggio. A volte gli integralisti sono al potere, come in Arabia Saudita, in Iran o nello Yemen. A volte sono forze oscure che con la violenza cercano di uniformare il mondo al loro distorto credo. Per finire sotto i loro colpi basta credere nel diritto alla libertà, anche religiosa.
(…) Il suo goal più bello, che le è valso pure il riconoscimento del presidente americano Joe Biden e il premio Uefa Equal Game Awards, lo ha segnato il 18 novembre del 2021 quando all’aeroporto di Stansted di Londra è atterrato un volo proveniente da Kabul con a bordo le calciatrici della Nazionale femminile dell’Afghanistan e i loro parenti in fuga dal regime del terrore imposto dai talebani tornati al potere.
Non è stato facile per Khalida Popal trovare i fondi e mettere in salvo le sue eredi sui campi di calcio dove adesso non si giocano più partite e i talebani organizzano esecuzioni di massa. Il New York Times descrive così la sua reazione, quando nell’agosto del 2021 i talebani hanno ripreso il potere e fatto sprofondare definitivamente l’Afghanistan nelle tenebre. Con un attacco di panico: «L’ex capitano e una delle fondatrici della Nazionale femminile di calcio afghana si è svegliata sul pavimento del suo appartamento vicino a Copenaghen, bagnata di sudore e tremante. Era crollata e non riusciva a parlare».
Oggi Khalida Popal, che è riuscita a evacuare la Nazionale femminile senior e la squadra giovanile dell’Afghanistan, insieme ai loro familiari, in Australia, a Londra, in Portogallo – in tutto trecento persone sottratte alla morsa dei talebani da cui lei era scappata nel 2011 perché era diventata un bersaglio mobile – è diventata una leggenda anche perché l’organizzazione Girl Power da lei fondata e guidata in Danimarca per promuovere l’inclusione delle donne con background migratorio, è diventata un brand globale dell’attivismo sportivo.
La missione di favorire l’emancipazione femminile è servita a creare una rete internazionale per formare leader attraverso un’accademia, Girl Power International Leadership Academy, favorendo la parità di genere, aiutando le minoranze, i rifugiati, i migranti in Europa, in Medio Oriente e persino in Africa, in Nigeria e in Ghana. L’ex capitana della Nazionale femminile afghana, che è stata appena onorata al Giardino dei Giusti di Milano, dall’esilio ha sostenuto le calciatrici afghane che hanno denunciano tecnici e dirigenti per abusi sessuali e portato la Fifa a squalificare a vita il presidente federale afghano Keramuddin Karim, tiene conferenze in tutto il mondo, alla Fifa, alla Uefa, alle Nazioni Unite e alle conferenze sulla pace e sullo sport per portare avanti il suo messaggio sul potere delle ragazze.
*da: Vita e libertà contro il fondamentalismo, Mimesis, Milano 2025