di Roberto Esposito (huffingtonpost.it, 25 gennaio 2024)
Da molti anni la ricerca – in ambito psicologico, neuropsicologico e sociologico – ci sta svelando le diramazioni del comportamento dei consumatori. Appare assodato che a incidere enormemente sulle scelte ci sia la componente culturale e, più precisamente, dei valori culturali. Si tratta né più né meno di credenze, che si formano all’interno di una società e che permettono a chi le osserva di sentirsene parte.
Per lungo tempo queste credenze sono state “fabbricate” e tramandante dalle Istituzioni tradizionali, scuola e famiglia in primis. Oggi a cucire il vestito di ciò in cui crediamo ci sono molti più sarti. Il web e i social media hanno prodotto una generale disintermediazione dell’informazione e della formazione, così che chiunque ha facilità d’accesso a numerose e diverse voci. Ciò non significa, però, che i gruppi di riferimento perdano valore: soprattutto i più giovani mantengono con i pari un legame di confronto ed emulazione che, però, è molto più permeabile a influssi esterni, anche di livello globale.
Ecco, allora, che i valori culturali sono diventati sempre più valori allo stato puro perché la cultura ha perso la nettezza delle radici territoriali. Ce ne sono almeno un paio che, negli ultimi anni, tengono banco e nessuno che voglia fare incetta di consumatori può ignorarli. Per esempio, secondo una ricerca dell’Harvard Business School, il 77% dei consumatori apprezzano l’impegno di un brand nel promuovere e comunicare la sostenibilità. Secondo l’ultimo Diversity Brand Index, invece, il 69,3% della popolazione è maggiormente propenso a scegliere brand più inclusivi. È anche provato che le tematiche DE&I (Diversity, Equity & Inclusion) incidono positivamente sulla crescita aziendale. Nello specifico, il gap dei ricavi di un brand inclusivo rispetto a uno non inclusivo può superare il 21% (a favore del primo).
Non ci sono soltanto i diritti (in generale) e l’attenzione al pianeta. Potremmo citare il benessere e la salute, il rispetto del tempo libero, il contrasto al gender gap: tutte cause sociali che, se ben sposate e raccontate, possono fare la differenza nella percezione di un brand e nei suoi risultati commerciali. Ma ce n’è anche un altro, che sta crescendo con la Generazione Z: al primo posto della loro scala valoriale c’è la benevolenza, il prendersi cura dell’altro (BCW Age of Values, 2023). Ne derivano la predilezione per la gentilezza, l’altruismo e l’inclusione in senso vasto.
Tutto questo non lo sanno soltanto le aziende, lo sanno – a ragion veduta – anche gli influencer. Ecco perché abbiamo assistito a un trend esplosivo: quello dell’influ-activism, vale a dire dei professionisti dei social che diventano attivisti, scegliendo una o più bandiere che possano farli entrare in connessione con la community (o addirittura farli emergere). I Ferragnez, in questo, non sono da meno. Praticamente da subito hanno scelto temi da cavalcare, inframmezzando la narrazione fatta per lo più di momenti familiari e advertising con proclami e azioni a sostegno di questa o quella causa. Per Fedez, l’inclinazione è diventata addirittura battaglia politica in più di qualche circostanza. Vale per tutti ricordare il Ddl Zan, al quale l’artista ha dedicato anche delle dirette di approfondimento.
Cosa c’entra la beneficenza in tutto questo? Esattamente come il posizionamento a favore di diritti e sostenibilità, è una forma di marketing. Anzi, ha proprio un nome: CRM, vale a dire Cause Related Marketing, la cui forma più diffusa è proprio quella di devolvere una parte dei ricavi della vendita di un prodotto a un soggetto (non-profit o sanitario) impegnato in una causa sociale. Anche questa forma di marketing fa leva sul fatto che i consumatori abbiano a cuore l’impatto che un’azienda o un brand hanno sulla collettività o sul contesto (anche naturale) che le gira intorno. Insomma, nulla di nuovo sotto il Sole. E chi addita Chiara Ferragni accusandola di una falsa etica perché fa beneficenza per attirare consenso (su di sé o sul suo brand, personale e aziendale) sbaglia proprio impostazione.
Il problema delle inchieste, e quindi della Ferragni, non è di ordine morale, ma sostanziale: l’imprenditrice è caduta sulla trasparenza. Che, comunicativamente parlando, è un elemento non da poco. Decine di aziende hanno vissuto crisi esemplari sotto la scure del washing: del dichiarare, cioè, ciò che non si fa realmente. Non serve, quindi, un processo alle intenzioni, ma alla metodologia certamente sì. Ben venga, allora, la legge che il Governo ha pensato in tutta fretta per regolamentare la pratica, anche se è sorprendente che un’istituzione sia dovuta intervenire. Non tanto perché non sia di pubblico interesse, anzi: la beneficenza fa leva sulla compassione, che è un sentimento talmente radicato negli esseri umani da frantumare i filtri razionali. Ma perché non essere trasparenti può portare danni enormi, configurandosi come un boomerang in grado di ghigliottinare alla radice qualsiasi buona reputazione. E questo, ora, la Ferragni lo sa bene. Quindi, bisognerebbe evitare il problema a monte, se non per correttezza almeno per strategia (e astuzia).