La battaglia legale per il documentario su John McAfee

di Marco Romandini (wired.it, 26 agosto 2022)

Quando Wired mi ha chiesto di scrivere un commento sul documentario di Netflix in uscita sulla vita di John McAfee, l’imprenditore che ha creato l’omonimo antivirus e fatto molto altro, Running with the Devil, mi sono messo a googlare un po’ e ho scoperto che era basato soprattutto sulla fuga di John dal Belize. Così ho contattato un amico comune che era lì in quel periodo, chiedendogli se avesse mai conosciuto tale Charlie Russell, il regista del film, e lui mi ha risposto che non l’aveva mai sentito né visto sull’isola. Insomma Russell, secondo quanto raccontava la fonte, non aveva mai filmato John né l’aveva mai incontrato di persona. Con queste poco rassicuranti premesse mi sono messo a vedere il lavoro della Curious Films e ho scoperto che era basato quasi esclusivamente sulle riprese di Robert King e sulle interviste di Rocco Castoro di Vice durante la fuga.

Netflix

In pratica, ho capito che si trattava del famoso (famigerato?) documentario che Vice non aveva mai voluto pubblicare. Di suo il regista ha aggiunto soltanto qualche intervista qua e là: l’ex ragazza ai tempi, la sedicente diciottenne Samantha Harris, la moglie Janice, un cugino e un ghostwriter che avrebbe dovuto scrivere la sua storia, di cui parlerò dopo. Se Castoro è però l’autore materiale del lavoro, il suo nome non compare come co-produttore, e stranamente dal film non ne esce nemmeno troppo bene: ripreso più volte da John McAfee, terrorizzato dalla situazione, così niubbo (novellino) da pubblicare la foto con i metadati facendo scoprire la loro posizione durante la fuga e talmente loser da non essere riuscito neanche a pubblicare la storia per cui aveva quasi rischiato la vita. Insomma, Castoro, all’epoca caporedattore di Vice, passa un po’ per un entusiasta che si è imbarcato in un’avventura troppo grande per lui, riuscendo persino a danneggiare “l’eroe” del suo documentario, oltre a diventare complice della fuga di un ricercato.

Mi è sembrato strano che, visto che il lavoro era il suo e aveva il copyright, alla fine avesse accettato un trattamento del genere. Così ho deciso di sentire Rocco e chiederglielo direttamente. E Rocco mi ha detto cose molto interessanti. Queste: «Non ho firmato alcun accordo con Curious Films perché temevo che avrebbero violato il mio copyright. E non ho neanche firmato una liberatoria per immagine e somiglianza, come sarebbe richiesto per qualsiasi documentario. Mi hanno offerto di vedere il film solo poche settimane fa, poi mi hanno detto che sarebbe uscito il 24 agosto. Il trailer è invece uscito il giorno successivo nonostante i miei rappresentanti avessero specificato che dovevamo discutere di ciò che era incluso nel film, avvertendoli che stavano violando la mia proprietà intellettuale. Hanno scelto di ignorare questi avvertimenti e trasmetterlo comunque. Così ho chiamato un avvocato in materia di proprietà intellettuale e copyright che ha già inviato al loro legale una lettera per informarli della violazione».

Poi gli ho chiesto se è soddisfatto e felice di com’è stato trattato nel documentario. «Sono stato felice di aver visto che il documentario ha incluso il mio filmato in gran parte inalterato. Materiale che io ho esclusivamente assicurato, girato, prodotto, registrato e sviluppato in Belize, Guatemala e altrove durante il mio viaggio. Ma non ho firmato nessuna liberatoria con la società di produzione e sento che hanno ingiustamente sfruttato il mio lavoro. Vorrei veramente uscire da questa storia in modo semplice e pulito, ma continua a ricacciarmi indietro. E allora la finirò una volta per tutte. Aggiungerò altre informazioni su come Curious Films ha trattato me e altri miei colleghi in questo documentario, nonché su come figure dei media hanno soppresso questa e altre mie storie per anni». Rocco è piuttosto incazzato e ha i suoi motivi. In pratica, stando al suo racconto, la londinese Curious Films, di cui Charlie Russell è il fondatore insieme a Dov Freedman, si sarebbe appropriata del lavoro dell’ex ragazzo di Vice fregandosene del copyright e facendolo trasmettere da Netflix.

Una storia, quella del film, che acquisisce una connotazione marcia, lastricata di raggiri e menzogne, che si sposa appieno con quella del soggetto al centro di questo documentario: John McAfee. John dispensava un fascino del male da Simpathy for the Devil con ironia, proteggendo la sua figura con dosi massicce di carisma, prevaricante intelligenza, nativo savoir faire da gentleman inglese alla bisogna e una quantità terrificante di eccessi in termini di droghe, alcol, armi, fantasie sessuali, comportamenti bizzarri, pericolosità generale e costante. Il tutto trasferito nell’astrale della sua profonda paranoia e scaraventato nel mondo reale con l’instabilità di un isotopo radioattivo, grazie anche all’uso abnorme di una polverina bianca di cui andava matto: i sali da bagno, una droga. Per l’esattezza quella che Robert King nel documentario definisce “dieci volte più potente della metanfetamina”. Sotto il suo effetto McAfee era capace di fare tutto, soprattutto sparare. Ecco allora gli improvvisi spari notturni in barca o nelle diverse case in cui si era rifugiato (“Mi sembra di aver visto una sagoma che si arrampicava sul muro”), ma probabilmente anche lo sparo in Belize. Già, quello. Ha ucciso lui Gregory Faull? John l’ha mai ammesso e non è mai stato condannato.

In una di quelle case dovevo finirci anch’io, invitato da John che voleva raccontarmi tutto su quei nastri registrati che attesterebbero la corruzione del governo del Belize, la caccia dei sicari del Cartello e i traffici malsani degli Stati Uniti. Nessun media, però, ha voluto raccontare quella storia. Scottava troppo? Questo è il videogame di John. Quando gli chiesi di darmi una piccola anteprima da fornire alla redazione come prova, mi disse che non era possibile, troppo pericoloso, e che me li avrebbe fatti ascoltare là. Là dove aveva una camera blindata e armata, protetta da dobermann e guardie del corpo. Là dove pagava un ragazzo per annotare tutte le macchine che passavano, con tanto di numeri di targa, giorno e notte. Alla disperata prova di una casualità sospetta, alla disperata prova della sua paranoia. La stessa che lo portava a setacciare il giardino scovando cartocci di barrette di formaggio, a suo dire la “pistola fumante” che il Cartello lo stava spiando perché “quella roba piace ai messicani”. Fino al classico scherzo del destino, a rendere più surreale il tutto e a cementificare i suoi incubi: un’amichevole di calcio Usa-Belize proprio vicino casa sua, la prima partita in assoluto tra le due formazioni. Non solo i sicari dei Los Zetas e il governo del Belize, adesso aveva anche i calciatori alle calcagna.

Il documentario la mostra bene quella paranoia, per quanto può fare. Da questo punto di vista, forse solo da questo, il documentario è onesto. il McAfee che traspare è un personaggio complesso, un abile manipolatore, ironico, scaltro e geniale, instabile e violento. Certo, si potevano evitare ammiccanti insinuazioni a fantomatici software che aveva progettato per spiare tutti i governi del mondo, ma quelle cose le dice il “suo ghostwriter”, che suo ghostwriter non è, è solo uno dei tanti scrittori che avevano chiesto di scrivere la sua biografia e che era finito nel suo videogame, abbacinato dalla fantasia e dal carisma di John che l’avevano fatto sentire speciale. Il primo contattato per scriverla era stato George Jung, più noto come Boston George, narcotrafficante di Pablo Escobar reso famoso dall’interpretazione di Johnny Depp nel film basato sulla sua storia: Blow. George aveva iniziato, poi i due galli nel pollaio si sono scontrati e il progetto è andato in malora, uno dei tanti finiti così nella vita di John.

Il regista poteva certamente risparmiarsi (e risparmiarci) anche la sparata finale fatta dire a Samantha Herrera (evito spoiler) per perpetuare il mito e insaporire il lavoro gridando allo scoop, mentre l’insinuazione sull’assassinio del padre è credibile e mi era già stata fatta da chi lo conosceva bene. Ci sono tante cose che non quadrano in quella storia, un po’ come in tutta la sua vita. Artisticamente il documentario in sé è di basso livello, ma almeno ci sono le riprese integrali di Robert e le interviste di Rocco a renderlo interessante. Gli ex ragazzi di Vice meritavano miglior sorte, ma “correndo col diavolo” si corrono rischi. E la vita di John McAfee resta maledetta ancora oggi. Non solo ci sono ancora dubbi sulla sua morte, ma la sua salma è tuttora nell’obitorio spagnolo, bloccata dalle accuse di omicidio al governo spagnolo dell’ex moglie Janice e dalle sue richieste di ulteriori autopsie. Game over? Macché, premi play e John ti farà giocare a un altro videogame. Anche da postumo.

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