di Valeria Rusconi (repubblica.it, 17 aprile 2018)
«Una pietra miliare messa a segno per la capacità di raccontare l’esperienza afroamericana»: con questa motivazione Kendrick Lamar è diventato il primo rapper a vincere il Pulitzer per la musica. La cerimonia di premiazione si è svolta lunedì 16 aprile presso la Columbia University di New York.Dove la giuria ha definito il suo recente disco, DAMN., «una collezione virtuosa di canzoni accomunate da vernacolare autenticità e da dinamiche ritmiche che propone aneddoti ficcanti in grado di catturare la complessità della vita moderna degli afroamericani». Lamar ha forzato le polverosissime regole del Premio diventando l’unico musicista non classico e non jazz, gli unici generi considerati “colti”, a conquistare il riconoscimento massimo per la sua musica. Non importa che ci siano voluti centodue anni, cioè da quando è stata istituita l’onorificenza considerata la più prestigiosa negli Stati Uniti per quanto riguarda il giornalismo, la letteratura e la musica. Oggi Lamar, con DAMN., uscito il 14 aprile dello scorso anno, si è smarcato da tutti raggiungendo però una meta che è fondamentale per tutta la musica e non solo per la cultura rap. Il suo, dopo il Grammy per il disco precedente, To Pimp a Butterfly, è un passo che va ben oltre le aspettative, per molti versi più sorprendente del Premio Nobel assegnato a Bob Dylan nel 2016. Come per Dylan, quello che ha convinto la giuria del Pulitzer sono state solamente le sue parole: non tanto le basi, il flow (il “flusso” del cantato nel rap, come si dice in gergo) o l’originalità – uno stile personale e subito riconoscibile – delle sue composizioni, ancora troppo “ostiche” per essere comprese da chi guida il Pulitzer. C’è però una grossa distinzione da fare: Lamar, a differenza del mito, dell’icona, dell’impenetrabile cantautore Zimmerman, è un nero, proviene dal ghetto, snocciola rime durissime di hip hop. Lamar ha vinto perché, proprio come Dylan che il Pulitzer lo aveva già ricevuto nel 2008, ha saputo raccontare il mondo che gli sta intorno, il suo mondo e quello di tantissimi come lui: «Offre istantanee che catturano la complessità della vita moderna afroamericana», scrivono dal Premio. Il Pulitzer, che raramente va a generi musicali tradizionali, lo scorso anno aveva riconosciuto il lavoro della compositrice d’opera sperimentale cinese Du Yun. Un nome che sta a una distanza siderale e utilizza un linguaggio cerebrale ed elitario rispetto a quello con cui la maggior parte delle persone sa confrontarsi e riesce ad assimilare. Perché se una parola si può spendere per Lamar allora questa è “popolare”, nel più nobile senso del termine. Lamar, che ha appena trent’anni, va così a unirsi alla lista di premi Pulitzer che annoverano compositori del calibro di Duke Ellington, George Gershwin, Thelonious Monk, John Coltrane, Hank Williams insieme ad Aaron Copland, Charles Ives e John Adams. Kendrick Lamar Duckworth, che è nato il 17 giugno 1987 a Compton, uno dei sobborghi più difficili sulla West Coast, a Los Angeles, poteva finire male. O morto, o tra le fila dell’ennesimo gruppo di musicisti espressione del gansta rap più vuoto e violento. D’altronde, proprio a Compton è nato quel genere – il gansta appunto – in cui contano solo i soldi, la droga, le armi e le donne. A differenza degli N.W.A., che trent’anni prima con la pietra miliare Straight outta Compton “uscirono” dal ghetto descrivendo la brutalità della polizia e la necessità di affermare la propria libertà d’espressione attraverso il rap, Lamar ha fatto sua la lezione dell’hip hop “conscious”, il cui cuore sta nel raccontare temi politici e sociali. L’umanità: «Senza dubbio crescere in un quartiere difficile di Los Angeles come Compton mi ha fatto fare i conti con la realtà», spiegava tempo fa. «Quando nasci in un posto del genere non puoi nasconderti, devi uscire di casa e confrontarti con quello che hai davanti, anche venirci a patti se è necessario. Da questo punto di vista la musica mi ha sempre aiutato molto perché, nonostante quello che si dica, fare hip hop significa soprattutto una cosa: uscire di casa e raccontare ciò che si vede. Se sono cambiato adesso che ho venduto mezzo milione di dischi? Direi di no. Sono sempre il solito Kendrick, il ragazzo che cerca di arrivare alla fine della giornata». Il nome glielo trova la madre: è in onore del compositore dei Temptations, Eddie Kendricks. Come tanti, il piccolo Kendrick vuole fare hip hop quando, ancora ragazzino, incontra Tupac Shakur. Tra i suoi idoli ci sono The Notorious B.I.G., Nas ed Eminem. Con lui hanno voluto avere a che fare tutti i più grandi, a ogni latitudine musicale: Rihanna, Lady Gaga, che gli ha telefonato dichiarandosi sua fan ai tempi del secondo disco, Good Kid, M.A.A.D City, non ultimi gli U2. Il 4 gennaio di quest’anno ha pubblicato il singolo All the stars in collaborazione con SZA: è il primo estratto da Black Panther: The Album, la colonna sonora di quello che forse, a oggi, è il film Marvel sociologicamente più rilevante. Barack Obama gli ha mandato una pacca virtuale sulle spalle, lo scorso anno, dicendogli: «Stai andando alla grande». E quando anche la politica si muove, quando il primo Presidente afroamericano della Storia è in ascolto, è chiaro che qualcosa soffia nel vento. Che non si tratta solamente di canzonette. Nei suoi “flussi di coscienza” Lamar si interroga su un’adolescenza sempre in bilico tra la cosa giusta da fare e quella più conveniente, racconta il microcosmo del quartiere, del ghetto dove l’ignoranza trionfa, come cantava in Ignorance is Bliss, “L’ignoranza è felicità”, non nascondendo l’attitudine gangsta e il crimine dilagante ma gridando «non sappiamo cosa facciamo». È proprio questo il pezzo che, agli inizi della sua carriera, attira l’attenzione di Dr. Dre, il “padre” di Eminem, che lo mette sotto contratto. Cita Martin Luther King e Malcolm X, racconta i sogni infranti e le visioni alterate della comunità afroamericana che lo circonda, isolato dopo isolato, con una cruda poetica. «Riempiamo il vuoto della disoccupazione facendo i criminali, le strade parlano, riempiamo gli spazi con le nostre bare, riempiamo le banche di soldi, riempiamo le tombe di padri, riempiamo i bambini di stronzate, blog e pulpiti, li riempiamo di gossip. Deve essere così che Pac si sentiva: come se l’apocalisse stesse per arrivare», dice in Feel. Poi aggiunge: «È come se il mondo intero volesse le mie preghiere, ma chi cazzo sta pregando per me?». Per una volta sbaglia: oggi, a onorarlo, qualcuno c’è di sicuro.