di Marino Niola (repubblica.it, 1° gennaio 2024)
Dio si serve di chi danza per rivelare sé stesso, diceva Raimon Panikkar, il grande filosofo della religione catalano. Doveva pensarla così anche Katherine Dunham, la grande ballerina americana, che trasformò la danza in una forma suprema di conoscenza degli altri popoli. Perché è un’arte che mette in gioco il corpo e la mente, la ragione e le emozioni, la scienza e la poesia.
In realtà, Dunham è stata una delle principali artiste del secolo scorso, l’indiscussa pioniera della black dance. La celebre Panther Dance di Michael Jackson, che chiude il film Black or White, diretto da Spike Lee nel 1991, è considerata un omaggio alla inarrivabile Katherine. Che nella vita è stata anche scrittrice, produttrice, educatrice e benefattrice. Ma anche coreografa e regista, attivista e femminista. E in più grande antropologa. Ed è proprio l’Antropologia a dare una forma alle sue passioni.
Nata nel 1909 da padre malgascio e madre franco-canadese nella cittadina di Joliet, vicino Chicago, un nome consegnato alla storia della musica dal regista John Landis che sceglie di chiamare Jake, il minore dei Blues Brothers, proprio con il soprannome di Joliet. I suoi la mandano all’Università per farne un’insegnante. Ma l’ansia di seguir “virtute e canoscenza” la spinge sempre più lontano dai progetti della famiglia. Nel 1929, ha appena messo piede in un’aula accademica che è già entrata nel New Negro Movement formato da intellettuali e artisti di colore. Da questa esperienza nasce la sua prima coreografia, Negro Rhapsody.
Siamo nel 1931 e la giovane Dunham ha già fatto capire di che colore sono i suoi sogni. Oltre che alla danza, si appassiona all’Antropologia. Le vede come due forme complementari e inseparabili di esperienza conoscitiva perché, ripete spesso, non ci si può mettere nella mente dell’altro se non ci si mette anche nel suo corpo. Come tutti gli spiriti ferventi è in cerca di maestri. Quelli di danza se li sceglie da sola e bene. A iniziarla alle arti coreutiche sono, infatti, Ludmilla Speranzeva, ex del teatro Kamernyj di Mosca, la star americana Ruth Page, e Vera Mirova, che le schiude lo scrigno prezioso della danza orientale.
È altrettanto fortunata all’Università, dove incontra il gotha dell’Antropologia di allora. Armand R. Radcliffe Brown, padre del Funzionalismo britannico, e Melville Herskowitz, che la affascina con i suoi corsi sulle danze sacre caraibiche e la convince a partire per Haiti per studiare sul campo i ritmi vodu. Ha anche la fortuna di seguire i corsi del grande Bronislaw Malinowski, inventore dell’osservazione partecipante (che sarebbe la full immersion dell’antropologo nella vita della società studiata). Ed è proprio questo eccentrico mandarino dell’Antropologia a darle lezione di beguine, una rumba lenta di origine martinicana.
Quando nel 1935 parte per Haiti si getta anima e corpo nello studio del vodu, dove il ballo è la via privilegiata di contatto con il sacro e la trance mistica prepara il corpo del posseduto a diventare la maschera visibile del dio. Dal suo soggiorno caraibico nascono libri come The Dances of Haiti, uscito nel 1947, dove l’autrice dimostra che la danza non è una semplice surplus estetico della vita reale ma una via d’accesso privilegiata alla verità nascosta di una società. Quando si prepara l’edizione francese del libro, Claude Lévi-Strauss, il massimo antropologo del Novecento, scrive con entusiasmo un’ispirata introduzione in cui riconosce a Katherine di avere aperto una nuova pista alle Scienze umane.
Ma la scienza di Dunham non è solo nei libri: è anche nei suoi spettacoli-manifesto, che sono altrettanti volumi danzati. Soprattutto quelli con il Negro Dance Group, da lei fondato nel 1937. Come Tropics, che debutta nel 1940 al Windsor Theatre di New York. È in programma una sola serata. Si replicherà per 390 volte di fila, sempre sold out. In realtà i tropici dell’antropologa performer non sono tristi come quelli di Lévi-Strauss. Perché nell’universo delle danze afroamericane, dalla batucada al black bottom, dalla rumba alla conga, i gesti di Katherine diventano parole incandescenti. Che fanno riflettere e incantano al tempo stesso.
Quando le prime immagini della sua batucada arrivano in Europa scatenano tempeste di ormoni e neuroni che vorticano insieme provocando scintille innovative. Lo stesso accade nel 1943 con Rites de Passage dove la protagonista racconta danzando temi antropologici come i rituali di fertilità, quelli di iniziazione e le cerimonie funebri. E nello stesso periodo, in un balletto come Swamp, denuncia la pratica barbara del linciaggio, purtroppo a quei tempi ancora presente in molti Stati americani, e si schiera ufficialmente sul fronte della lotta contro la discriminazione razziale. Nel 1944 l’instancabile Katherine fonda a New York la Dunham School of Arts and Research, da cui escono star come l’attore José Ferrer, Oscar 1951 per il suo Cyrano, e la cantante e ballerina Eartha Kitt.
Ma a scuola da lei vanno anche divi conclamati e acclamati come James Dean e Marlon Brando, che farà tesoro dei suoi insegnamenti in un film come Bulli e pupe, nell’indimenticabile valzer de Il padrino e nella strepitosa performance nel gala Unicef del 1967, dove balla una frenetica danza thaitiana in cui si riconosce tutto il metodo Dunham. Nel frattempo, l’antropologa che balla continua a scrivere libri come Island Possessed, uno straordinario saggio di Antropologia della danza ma anche un affascinante documento sui legami segreti tra il vodu e la politica haitiana. Quando muore, nel 2006, a 96 anni, è ancora in grado con un semplice movimento delle braccia di far scendere sulla terra il dio della danza.