di Howard Fineman (huffingtonpost.it, 2 settembre 2015)
È una cosa assolutamente naturale che Kanye West abbia annunciato la propria candidatura alla presidenza. È naturale che l’abbia fatto in modo piuttosto anticonvenzionale: cioè durante la premiazione ai Video Music Awards di Mtv. Ed è altrettanto naturale che in giro ci sia gente che lo prende sul serio, o almeno, che non gli ride in faccia. L’unico errore del signor West è quello di aver deciso di non candidarsi fino al 2020.L’artista, spesso controverso, certo mai noioso, dovrebbe invece buttarsi a capofitto, e farlo adesso. Perché oggi l’antipolitica tira, tira tantissimo. Quelli che giocano di disturbo sono sulla strada giusta. Proprio questa settimana sono arrivati i risultati di un sondaggio nello Stato dell’Iowa, dove la stagione delle primarie comincerà a febbraio, e salta fuori che tre candidati repubblicani che mai nella loro vita hanno rivestito un incarico pubblico — cioè il magnate del real estate nonché star dei reality televisivi Donald Trump, il neurochirurgo Ben Carson e l’ex amministratrice delegata della Hewlett-Packard, Carly Fiorina — raggiungono tutti insieme il 46 per cento delle preferenze. Un altro recente sondaggio mostra Trump e Carson alla pari al primo posto in Iowa, ciascuno dei due al 23 per cento. Con Carly Fiorina terza a dieci punti, i tre hanno conquistato il 56 per cento dei voti complessivi. Al contrario, tutti gli eletti attualmente in carica nonché gli ex eletti in corsa per la nomination repubblicana sono fermi a risultati di una sola cifra in entrambi i sondaggi. E in particolare l’ex governatore della Florida Jeb Bush, figlio e fratello di presidenti, si ritrova relegato a un tremendo 5 o 6 per cento. Dal lato democratico della barricata, in Iowa, i dettagli magari cambiano, ma il trend anti-organico resta il medesimo. Hillary Clinton, l’ex segretario di Stato, è precipitata dal 57 per cento di maggio al 37 per cento di oggi. Il suo principale sfidante, il lupo solitario socialista del Senato, Bernie Sanders, è cresciuto passando dal 15 al 30 per cento. Sembra ormai abbastanza chiaro che questo è proprio l’anno più infame per coloro che fanno parte del vecchio sistema. Vent’anni fa un docente dell’Harvard Business School di nome Clayton Christensen aveva applicato per la prima volta l’espressione “gioco di disturbo” al mondo dell’innovazione. All’epoca lui si stava concentrando sull’economia e sul mondo degli affari: su come i telefoni cellulari avrebbero finito per rimpiazzare la telefonia fissa e i personal computer; su come le luci Led avrebbero presto messo in un cassetto le lampadine. Ma quella stessa identica espressione — e quello stesso identico processo — s’applica oggi a intere società e interi governi. Negli ultimi decenni, infatti, la maggior parte di entrambi ha subìto questo disturbo in dosi massicce. L’Unione Sovietica è stata minata alle fondamenta dall’individualismo, dal libero mercato nonché dalla sua stessa inefficienza. Quei Paesi europei che erano stati in guerra fra loro per un millennio decisero di sperimentare una nuova forma d’unità. La Repubblica popolare cinese lanciò il suo esperimento su vasta scala di capitalismo controllato. E la primavera araba ha tentato, con qualche successo, di travolgere il Medio Oriente. Dal 1945 a oggi il governo che di disturbi ne ha subiti di meno in assoluto è stato forse quello degli Stati Uniti, che vinsero la seconda guerra mondiale mettendosi in sella, a cavallo del pianeta. Ma il cosiddetto “secolo americano” volge ormai al termine. E di fronte alle nuove sfide, le istituzioni pubbliche del Paese vincitore si sono ingrippate entrando in stallo, in modo tale da rischiare di renderle del tutto inservibili — e hanno finito quindi per essere disprezzate dall’opinione pubblica americana, che se ne sente sfiduciata. Le ragioni del disgusto provato dall’opinione pubblica sono tutto intorno a noi. Il Congresso risulta inaffidabile perfino quando si tratta di assolvere ad una delle sue funzioni più basilari: l’approvazione di un bilancio. I partiti politici, ossessionati dal denaro e dalle frange più estremistiche del proprio elettorato, non fungono più da mediatori di compromessi. Washington sostiene uno stato sociale, ma prende in prestito trilioni di dollari per finanziarlo. L’esercito non ha più “vinto” una guerra convenzionale dal 1991, e non ha idea di come sconfiggere lo Stato Islamico. I confini si sono fatti sempre più porosi, e le leggi sull’immigrazione sono un disastro. Le grandi banche sono più potenti che mai; gli amministratori delegati delle corporation sono più ricchi che mai; la middle class non è né l’una né l’altra cosa. I progressi dei movimenti per i diritti civili nei tribunali e nel corso delle legislature non hanno portato a una vera uguaglianza, e oggi stanno compiendo dei passi indietro. La riforma della legge sul finanziamento elettorale successiva al Watergate è stata stravolta dai tribunali, che adesso permettono ai miliardari di comprarsi intere campagne elettorali. Barack Obama, un presidente che è risultato efficace da molti punti di vista, non è però riuscito a ispirare quel genere di cambiamento radicale sul quale in tanti avevano sperato. In questa impaludata e disfunzionale situazione di stallo, i rappresentanti della politica tradizionale — per non parlare di quella dinastica — si trovano ad affrontare il gioco di disturbo da parte degli outsider. Questi ultimi paiono infatti slegati dalle vecchie tradizioni e dai vecchi mezzi di comunicazione; tendono a fornire risposte in grado di entusiasmare la gente, per quanto semplicistiche o irrealizzabili; vanno a fare direttamente leva sull’emotività, e sui timori dell’elettorato, piuttosto che recitare a pappagallo le solite logore scalette di partito; e quando poi fanno campagna elettorale, lo fanno con uno stile da celebrity, se lanciano delle accuse lo fanno clamorosamente, e quando devono lottare adottano le pose giuste. Trump, che nella competizione repubblicana ha dato una pista a tutti, di tutto ciò può dirsi esperto. Secondo lui, tutti i mali che affliggono l’America provengono da forze e da popolazioni che si trovano al di fuori dei confini degli Stati Uniti — messicani, cinesi e giapponesi in particolare. A suo giudizio tutti i rappresentanti del governo di Washington sono “impotenti”. Obama e i suoi consiglieri li sfotte chiamandoli “inetti”. E promette di risolvere ogni questione complessa con il proprio energico “management”. Liquidato inizialmente come una pagliacciata, poi come un flirt, poi come un fenomeno estivo destinato a svanire, oggi viene preso molto seriamente sia dai funzionari repubblicani che da molti analisti mainstream di ogni colore. Fra i conservatori c’è chi intravede in Trump quell’idea jeffersoniana per cui ciascuna generazione necessita di una “rivoluzione” di popolo. “Le ondate di riformismo populista sono sempre cicliche, e Trump sembra apprestarsi a incarnarne la prossima”, osserva lo storico Craig Shirley, eminente biografo di Ronald Reagan. Nei secoli passati, leader come Andrew Jackson e perfino Teddy Roosevelt hanno saputo sfruttare a proprio vantaggio quella che veniva percepita come la loro condizione di outsider, di modo da alimentare il clima di risentimento nei confronti di un potere arroccato, e propugnare il cambiamento. Ci sono però altri conservatori che concordano con alcuni autori mainstream nell’esprimere preoccupazione per le metafore pericolose adoperate da Trump, nonché per il suo ricorso deliberatamente ignorante alla figura autoritaristica dell’uomo forte. “La mia famiglia e io abbiamo lasciato Cuba verso la fine degli anni ’50 proprio per sfuggire a un leader come lui”, spiega il consulente repubblicano Alex Castellanos. “Non voglio dire che stiamo per diventare una sorta di ‘repubblica delle banane’, o una dittatura comunista, ma lui mi preoccupa”. L’editorialista conservatore George Will (la cui moglie lavora per un altro candidato alle presidenziali, il governatore dello Stato del Wisconsin Scott Walker) solleva preoccupazioni di natura simile, così come del resto il moderato Thomas Friedman del New York Times. Will ha voluto prendere in giro quella che è stata la promessa di Trump di deportare in massa undici milioni di immigranti senza documenti, in quanto implicitamente simil-nazista. Friedman invece è stato meno apocalittico. Trump, ha scritto, gli ricorda il defunto senatore Joseph McCarthy, quello che negli anni ’50 salì alla ribalta per aver indiscriminatamente accusato dei membri del governo di essere delle spie sovietiche. Kanye West, che nell’arena politica ci era già entrato nel 2005 — quando affermò che al presidente George W. Bush non “importa affatto delle persone di colore” — Trump non l’ha ancora preso di petto, per il momento. Ma non ci vorrà poi molto. E quando accadrà, giocheranno di disturbo l’uno contro l’altro.