(ilpost.it, 23 agosto 2021)
Dopo anni di pressioni, petizioni e richieste, Joséphine Baker, artista, resistente e militante antirazzista, entrerà al Panthéon di Parigi, dove la Francia accoglie e celebra i morti onorati dalla patria. Baker sarà la sesta donna del Panthéon accanto a Simone Veil, la principale promotrice della legalizzazione dell’aborto in Francia, le scienziate Marie Curie e Sophie Berthelot, Germaine Tillion e Geneviève de Gaulle-Anthonioz, importanti figure della Resistenza al nazismo. E sarà la prima donna nera. Josephine Baker è ricordata dalla maggior parte delle persone come la stravagante intrattenitrice che ha guadagnato fama e fortuna a Parigi negli anni Venti, con il suo gonnellino di banane e i suoi capelli corti.
Tuttavia, per gran parte della sua vita, Baker militò attivamente per la Resistenza (durante la Seconda guerra mondiale) e contro la discriminazione razziale. Visse con libertà il proprio corpo, la propria sessualità e la propria idea di famiglia. Freda Josephine McDonald, questo il suo vero nome, era una bambina meticcia afroamericana e amerinda degli Appalachi. Nacque nel Missouri nel 1906, dove all’epoca era in vigore la segregazione razziale, e cominciò la sua carriera di artista nei piccoli teatri di St. Louis. Dopo aver messo alla prova le sue doti di danzatrice a New York (senza avere il diritto di varcare l’ingresso principale dei music hall, a causa del colore della sua pelle), negli anni Venti, a soli 19 anni, arrivò in Francia. E spopolò in una Parigi affascinata, a quel tempo, da tutto ciò che era nero, esotico ed erotico. All’inizio, il suo personaggio si collocò perfettamente negli stereotipi sulle persone nere e nell’immaginario coloniale e di un’Africa mitica, tipica del tempo: per poi decostruirli, allontanarsi via via dai ruoli tradizionali che le spettavano, prendendo in giro gli spettatori e assumendo un atteggiamento di critico umorismo. Il suo successo fu enorme. Il suo viso, all’epoca, era su tutti i manifesti, i suoi spettacoli al teatro degli Champs-Élysées e alle Folies Bergère facevano il tutto esaurito ad ogni replica. Baker divenne l’immagine di molte pubblicità, per elettrodomestici o per cosmetici. Lanciò una brillantina per capelli (Bakerfix) e poi un olio abbronzante (Bakeroil), per chi voleva una carnagione come la sua ma «senza scottature». Partì in tournée per tutta Europa, frequentò re, regine, presidenti, gli e le intellettuali più importanti dell’epoca.
Con l’inizio della guerra, Joséphine Baker – che nel frattempo era diventata cittadina francese grazie al suo secondo matrimonio – utilizzò il denaro che aveva guadagnato e la sua notorietà per impegnarsi politicamente, esibendosi gratis per i soldati, finanziando la Resistenza e arruolandosi nei servizi segreti della France Libre di Charles de Gaulle. Durante gli eventi organizzati in suo onore nelle ambasciate di mezza Europa raccolse informazioni sui Paesi e sulle truppe nemiche, trasmettendole attraverso messaggi scritti con inchiostro simpatico sulle sue partiture o su pezzi di carta nascosti nel reggiseno. «Questi documenti sarebbero stati senza dubbio compromettenti se fossero stati trovati. Ma chi avrebbe osato perquisire Josephine Baker?» ricorderà lei dopo la fine della guerra e dopo aver ricevuto la Légion d’honneur, la più alta onorificenza della Francia. Dopo la guerra, la ripresa non fu facile nemmeno per lei, ma riuscì a tornare alla ribalta, sostenuta dal nuovo marito, Jo Bouillon, direttore d’orchestra che sposò nel 1946 e con il quale comprò il castello di Milandes in Dordogna. In questa enorme residenza, dopo il successo e gli anni di spettacoli, dopo i molti e le molte amanti, da Le Corbusier a Colette a Frida Kahlo, Baker realizzò il suo desiderio di convivenza e maternità adottando 12 bambini provenienti da diversi Paesi del mondo, dal Giappone alla Finlandia, dalla Colombia all’Algeria, dalla Costa d’Avorio al Venezuela e al Marocco. «Volevo fare qualcosa per dimostrare al mondo intero, attraverso i miei figli, che possiamo vivere insieme, davvero come fratelli», raccontò nel maggio del 1968. Definì la sua famiglia «una tribù arcobaleno».
Ben presto, Baker riprese la militanza. Negli Stati Uniti aderì e finanziò la National Association for the Advancement of Colored People, una delle prime e più influenti associazioni per i diritti civili, si rifiutò di danzare di fronte ad una platea segregata e nel 1963, all’età di 57 anni, prese la parola davanti al pubblico più numeroso della sua carriera: le 250mila persone riunite alla Marcia su Washington. Indossando la sua uniforme della Resistenza francese, parlò poco prima che Martin Luther King pronunciasse il suo discorso più celebre, I have a dream. «Sapete che ho sempre scelto la strada più difficile. Diventando vecchia, sicura di averne la forza e la capacità, ho preso quel sentiero così difficile e ho cercato di renderlo un po’ più facile. Volevo renderlo più facile per voi. Voglio che abbiate l’opportunità di fare tutto quello che ho fatto io, senza che siate obbligati a scappare per ottenerlo», disse Baker, esortando i giovani americani a «proteggersi con la penna, e non con la pistola». Subito dopo, il suo tour in South Africa si trasformò in un disastro: il suo discorso anti-apartheid svuotò i teatri. Nel frattempo, per il mantenimento del castello spese tutta la sua fortuna e fu costretta ad aumentare i concerti e gli spettacoli. Costumi piumati e lamé sostituirono il gonnellino a banana, a 69 anni cantò in uno storico spettacolo truccata con il glitter intorno agli occhi per nascondere le occhiaie.
Furono anni difficili, nei quali conobbe una nuova separazione dal marito, poi il fallimento e la povertà. Dive e personalità celebri degli anni Sessanta vennero in suo aiuto, tra cui Brigitte Bardot, ma invano. Il castello fu venduto all’asta e, quando le difficoltà finanziarie la condussero alla completa rovina, Baker ricevette il sostegno della principessa Grace Kelly di Monaco, che le permise di riprendersi economicamente e di comprare un appartamento in Costa Azzurra, dove trascorse il resto della sua vita. Joséphine Baker morì nell’aprile del 1975 per un’emorragia cerebrale, e venne sepolta al cimitero di Monaco. Per le strade di Parigi, 20mila persone applaudirono il corteo funebre in suo onore. Ora, le sue spoglie resteranno a Monaco, ha fatto sapere uno dei figli, ma un cenotafio – cioè un monumento sepolcrale privo dei resti – sarà collocato il prossimo 30 novembre al Panthéon. La data è simbolica: corrisponde a quella del suo matrimonio con Jean Lion, che le permise di ottenere la nazionalità francese.