di Francesco Francio Mazza (linkiesta.it, 28 febbraio 2018)
Lasciatevelo dire da uno che John Oliver lo conosce piuttosto bene, vivendo negli Stati Uniti da anni e seguendolo da quando lavorava al fianco di Jon Stewart al Daily Show. Altro che: “è solo un comico!”.La puntata di Oliver sull’Italia è un discorso politico: altrimenti non si spiegherebbe come mai chi lo ha condiviso lo abbia fatto non con lo spirito informale di chi vuole farsi quattro risate (“Hey raga, sentite quanto è forte questo!”) ma col piglio sacrale di chi sia appena entrato in possesso di un documento internazionale sconvolgente e si appresta a svelare la “Verità” a un popolo incapace di vedere oltre un velo di Maya tricolore. La nota perversione freudiana degli italiani, che godono quando all’estero si parla male di loro per poter dare libero sfogo agli anatemi contro i connazionali (con la premessa, sia chiaro, che loro però sono diversi), c’entra fino a un certo punto. Negli ultimi tempi, tutte le testate American venerate in Europa come depositarie della Verità Assoluta quali il New York Times, il New Yorker o il Washington Post si sono occupate di Italia, raccontando ora di un Paese sottomesso alle fake news di Putin, ora preda di una nostalgia canaglia del fascismo in forza della quale si rifiuta di abbattere a calci gli edifici costruiti durante il Ventennio, ora immorale a tal punto da ostinarsi a voler processare chi è accusato di una molestia sessuale in tribunale e non su un giornale. Eppure, tali contenuti hanno avuto nel nostro Paese una circolazione assai modesta e perfino l’analisi di un personaggio autorevole come l’ex direttore dell’Economist Bill Emmot è stata accolta con un’alzata di spalle. Pur parlando delle stesse cose – fake news, fascismo e bunga-bunga come mali principali del Paese – Oliver invece spacca lo schermo e tracima sui feed di decine di migliaia di persone che lo rilanciano con lo stesso piacere con cui la Binetti indossava il cilicio. La velocità del racconto, i tempi comici perfetti, le battute alternate a numeri, dati, fonti autorevoli: unendo il divertimento alla riflessione, il monologo di Oliver è una summa di quel “divertimento impegnato” che è un po’ la formula magica della società dello spettacolo di oggi, e che consente di cavarsela sempre, anche davanti a certi monumentali strafalcioni che mai sarebbero tollerati al giornalismo (figuriamoci alla politica). Per esempio: a un certo punto, Oliver mostra una foto di Trump in compagnia di Salvini – appena introdotto al pubblico come un fascista voglioso di pulizie etniche – presentandola come la prova di un endorsement di The Donald al Felpa di Ferro. Del resto, prosegue il conduttore, non c’è da stupirsi: Trump è “il Forrest Gump della miseria umana”. La battuta è fantastica, il pubblico in sala esplode in una risata e così fa quello a casa. Peccato che il tutto sia una fake news, architettata dallo stesso Salvini. Come raccontato da tutti i giornali progressisti all’epoca (qui la Repubblica) Trump non aveva idea di chi fosse quel tizio al suo fianco, almeno al tempo della foto. Si trattava di una “photo opportunity” dove chiunque poteva approfittare per fotografarsi con l’allora candidato Presidente. Forte del suo passato da celebre imbucato nella Milano da bere, Salvini non se lo era fatto ripetere due volte, e ottenuto il prezioso scatto, se l’era rivenduto sui social spacciandolo per un endorsement, per poi essere fantozzianamente smascherato dall’Hollywood Reporter. Una figura barbina per Salvini, ma un fatto che poco o nulla ha a che vedere con Trump: eppure nel racconto di Oliver ecco che il Presidente Americano e il leader della Lega, accusato di fascismo, diventano amiconi. Uno show come quello di Oliver è scritto e controllato da una ventina di writers e producers che rappresentano il meglio a livello mondiale; lui stesso ha più volte raccontato dell’estenuante lavoro di ricerca (“I basically have to watch everything”) cui si sottopone settimanalmente. È impossibile, quindi, che si sia trattato di una svista, così come è impossibile che in redazione ignorassero il funzionamento del sistema politico parlamentare italiano; o che non sapessero che Striscia la notizia non è solo il programma delle veline ma anche quello dove una donna, l’inviata Stefania Petyx, viene minacciata dalla mafia per i suoi servizi contro la mafia fatti per Striscia; o che la “pasta primavera” sia un piatto tipico da Fiorello, il covo di italoamericani davanti al Lincoln Center di New York a due passi dagli studios, ma non così popolare nei ristoranti del Belpaese. Semplicemente, questi fatti non erano utili al racconto comico, non erano funzionali ai tempi televisivi e sono stati quindi sapientemente omessi (“pettinati”, come direbbe Carlo Freccero) per venire incontro alle esigenze degli autori del programma. Funziona un po’ come con le puntate di Report o i servizi delle Iene: quando nulla conosciamo dell’argomento trattato, ci indigniamo e vorremmo menare l’intervistato. Quando invece abbiamo anche solo un’infarinatura, restiamo stupefatti davanti alla faziosità dell’intervistatore. Non sarebbe un problema se vivessimo negli anni Settanta, quando il linguaggio dello spettacolo e quello della politica viaggiavano su binari distinti e separati; è invece un problema serissimo oggi, in un’epoca in cui il dibattito politico avviene sui social, senza alcun tipo di filtro, e i linguaggi sono tutti mescolati tra di loro. Fa nulla che l’autore non abbia intenzione di produrre un discorso politico: nel momento in cui personaggi dello spettacolo entrano quotidianamente in politica sfruttando il capitale di visibilità guadagnato altrove (esattamente come Trump) allora ogni discorso che tratta di politica diventa – purtroppo per il comico – politico, perché come tale viene recepito. Esattamente il motivo per cui da noi trasmissioni del genere si guardano bene dall’ospitare politici o personaggi controversi. Non si tratta di un tema esattamente nuovo, perlomeno negli Usa: nel 2006 uno studio dell’Indiana University (citato nella pagina di Wikipedia del Daily Show) dimostrava che la quantità di informazioni prodotte dalla trasmissione comica (simile a quella che oggi Oliver conduce su Hbo) e dai principali telegiornali nazionali era esattamente la stessa. Nel 2009, un sondaggio del Time chiedeva quale fosse il mezzobusto più autorevole dei telegiornali americani: Jon Stewart vinse con il 44% dei voti, il 15% in più di quello arrivato secondo. Nel 2016 Jimmy Fallon venne letteralmente massacrato, con tanto di minacce di morte, per un’intervista a Trump in cui veniva accusato del terribile misfatto di “renderlo simpatico”. Non male per programmi che dovrebbero essere semplicemente “comici”, no? Intendiamoci: il problema non è la critica all’Italia e alla campagna elettorale peggiore della Storia dell’Occidente – che da queste parti si è criticata senza fare sconti a nessuno. Anzi: Dio solo sa quanto il Paese ne abbia bisogno e quanto la mancanza della stessa sia causa della situazione attuale. Il problema, però, è quando le critiche sottomettono i fatti a una tesi precostituita per meglio compiacere il pubblico di riferimento, a prescindere dalla finalità dell’operazione. Quando ciò accade, si esce dalla dimensione della critica per entrare in un mondo assai meno nobile: quello del populismo. E infatti – per un beffardo contrappasso – chi ha guardato Oliver e oggi pensa che Trump e Salvini siano amici, magari complimentandosi per “lo straordinario lavoro di fact-checking degli americani”, in realtà è rimasto vittima, proprio a causa di Oliver, della fake news cucinata dal leader leghista (vanificando l’italico fact-checking fatto da Repubblica: che beffa!). Dire che Trump ha endorsato Salvini quando la realtà di quella foto è un’altra vuol dire sfruttare di proposito l’indignazione social, la mammella da cui i populisti di ogni colore si abbeverano, per aumentare le views. Esattamente come citare le fake news o il ritorno del fascismo – al posto della mafia o della disoccupazione giovanile – come problemi principali dell’Italia. Il metodo John Oliver, quel prendere fatti verosimili e mischiarli a fatti veri, presentandoli in maniera divertente, è esattamente lo stesso usato dieci anni fa da un altro comico, dotato di un talento diverso ma ugualmente portentoso come quello del conduttore britannico. Beppe Grillo alternava battute esilaranti (“Lo Psiconano”) a fatti reali (la cronaca giudiziaria sempre ricca di scandali) raccontando una realtà iper-semplificata, dove ogni dettaglio non funzionale al suo racconto veniva ignorato di proposito; tuttavia, grazie alla sua abilità da intrattenitore, ipnotizzava le folle fino a rendere il proprio racconto più vero del vero, e grazie a questo meccanismo ha semplicemente costruito dal nulla il primo partito italiano. Che lo si usi in una piazza italiana o in uno studio televisivo di Manhattan, che a farlo sia un burbero genovese sudato o un suddito di Sua Maestà in giacca e cravatta, che la finalità sia creare un Movimento o fare milioni di dollari con le views di Youtube, la sostanza non cambia: si mira alla pancia della gente per vendere la propria merce. E poi si gode dei risultati ottenuti, mentre intorno si lasciano macerie.