di Giulio Zoppello (wired.it, 15 agosto 2023)
Quando uscì, Jesus Christ Superstar divenne una delle opere più divisive di sempre. Ed era del resto inevitabile data la sua natura volutamente irriverente, rivoluzionaria, totalmente slegata da come Gesù Cristo era stato concepito fino ad allora. I 50 anni che compie questo musical straordinario celebrano non solo la sua bellezza estetica, ma quanto abbia cambiato la nostra concezione della religione, il nostro rapporto con essa.
Jesus Christ Superstar era stato uno degli album di maggior successo di quell’inizio di anni Settanta, con interpreti del calibro di Ian Gillian, Murray Head e Yvonne Elliman. Divenne per ovvia consequenzialità un musical teatrale, fosse anche per non sprecare il peso e la potenzialità di una firma come quella di Andrew Lloyd Webber come compositore e di Tim Rice come autore dei testi. Successo clamoroso in quel di Broadway e non solo, diventò lo spettacolo più visto al mondo, riempiendo arene con decine di migliaia di persone. Poteva forse sfuggire ad Hollywood un’occasione del genere? Naturalmente no, ma il regista Norman Jewison, così come il produttore Robert Stigwood, sapevano benissimo di camminare su un terreno minato. La politica, l’opinione pubblica, la censura, così come le varie associazioni religiose, stavano con il fucile puntato e la polemica non sempre era pubblicità, non a quel tempo.
Il risultato finale, ad ogni modo, quasi totalmente fedele all’opera teatrale, fu capace di cambiare molto di ciò che era stato il Cristo sul grande schermo, così come di rappresentare appieno l’era della rivoluzione culturale, le nuove generazioni che chiedevano qualcosa di diverso alla religione, alla società ferma a una visione di Dio come una sorta di padrone. In quei primi anni Settanta ormai la cultura hippy aveva sedotto i giovani di tutto il mondo, un’intera generazione rifiutava la cultura violenta, patriarcale, machista e aggressiva degli establishment politici conservatori, delle vecchie generazioni. Questo interessava anche la religione, vista come supporto a un’immobilità che proprio Jesus Christ Superstar mise sul banco degli imputati. La guerra in Vietnam, il ’68, così come il nuovo corso musicale, avevano fatto sì che anche la religione, nelle sue varie accezioni, venisse considerata in modo diverso, piegata alle necessità di una gioventù che credeva nella condivisione, dell’amore universale.
Tale elemento s’intrecciava sovente con lo spiritismo, lo sciamanesimo, una variegata e complessa nuova filosofia in cui si ripensava ai concetti basilari, agli ideali più puri espressi nel Vangelo. Jesus Christ Superstar si unì a tutto questo, con il Cristo di Ted Neeley che si muoveva in un mondo dalle fortissime connotazioni moderne, quasi ucronico o retrofuturista. Gli oppressi, il popolo erano le minoranze, quelle che l’America bianca, wasp, conservatrice, quella che aveva votato Nixon e che aveva in J. Edgar Hoover il proprio protettore, odiava ciecamente. Era del resto l’epoca in cui i grandi ideali si confrontavano in modo sovente violento, in cui una parte di società non esitava a imbracciare le armi, osteggiata da poteri oscuri ed eversivi.
A perfetta esemplificazione della volontà di esercitare un rovesciamento di prospettive totali, Gesù non era restio a sperimentare l’amore, in senso fisico, ad avere tipiche pulsioni giovanili. Fatto che lasciò molti semplicemente inorriditi, in Jesus Christ Superstar era il Giuda di Carl Anderson, sostanzialmente, il vero protagonista. Il peccatore reso meno vile, meno negativo, per di più interpretato da un uomo di colore? Si levarono gli strali al cielo da parte del fronte conservatore per una provocazione con cui si rovesciava non solo il criterio di buono o cattivo, ma si ricordava come avere un Gesù bianco dagli occhi azzurri, per molto tempo, avesse significato anche demonizzare altri in base all’aspetto fisico.
Qualcosa che una certa fetta di opinione pubblica conservatrice gradì pochissimo, ed ecco che persino in Italia ci furono polemiche, richieste di censura o veto. Il fatto veramente sorprendente è che Papa Paolo VI si espresse in modo assolutamente favorevole rispetto al film. Il Pontefice capì come, al di là di una certa originalità di forma, quel musical, adornato da alcune tra le canzoni più belle del genere, con delle coreografie meravigliose, spingesse per un rinnovamento della visione del Vangelo, non certo per la sua distruzione.
Il Gesù Cristo che Neeley interpretava era totalmente distante dalla rappresentazione che se n’era data in sostanzialmente ogni pellicola venuta in precedenza. Staccandosi da Ben Hur, La più grande storia mai raccontata o Il Re dei Re, questo Gesù appariva non come una sorta di algido e inflessibile spirito evangelico, ma come un uomo alla scoperta di questo mondo materiale, dei suoi sentimenti, attraversato anche da paure, dubbi circa la sua entità, la sua identità. Giuda? Un amico che si sente tradito, che ragiona più politicamente che spiritualmente, di fatto la metafora dell’estremismo del fronte della gioventù variegato di quel tempo. Il tutto al servizio di un film che faceva del dualismo, dell’opposizione, ma non della visione manichea delle cose, il proprio centro.
Il set di Jesus Christ Superstar fu preparato in Israele, furono utilizzati anche veicoli e aerei dell’esercito. Un paradosso? Certo. Si cercò infatti di propugnare al di là di tutto un messaggio pacifista, di armonia, si sostituì a una visione Dio come una sorta di giudice, di Cristo come un ambasciatore staccato dalle cose terrene, l’idea di una religione fatta di amore, di accettazione del diverso. Si celebrò l’obiettivo di un dialogo da ritrovare innanzitutto con sé stessi, con questa religione che, nelle mani sbagliate, stava perdendo la propria importanza, la propria centralità a livello individuale e di società.
L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese, ma poi anche Brian di Nazareth, così come Maria Maddalena o La Passione di Mel Gibson hanno comunque dovuto tenere conto dell’impatto che ebbe questo musical, anche quando distanti dalla sua visione. Valorizzato da scenografie che avrebbero cambiato quel genere cinematografico, innovativo in modo unico sul versante musicale, Jesus Christ Superstar rese ancora più dominante il rock, staccandolo da una concezione meramente giovanile. Straordinario successo commerciale, aveva nella sua modernità di sguardo, nella capacità di essere film manifesto di una generazione, il suo cardine. Ancora oggi ci parla di un certo modo di vedere la vita, che, purtroppo, non sarebbe sopravvissuto allo scorrere del tempo.
Sono passati 50 anni dalla sua uscita in sala, che fece impazzire i teologi di mezzo mondo. La generazione hippie fu sconfitta, negli anni Ottanta una gran parte diventò yuppie, rinnegò i propri ideali, solo una piccola frazione è sopravvissuta, se si unì alla cosiddetta corrente New Age. A dispetto della cristallizzazione insita nel simbolismo generazionale, Jesus Christ Superstar rimane uno dei musical più iconici di sempre. Soprattutto uno dei più coraggiosi a livello politico e semantico, capace di ricordarci ancora una volta come il cinema abbia saputo non solo raccontare il proprio periodo, ma anche essere un motore d’innovazione culturale.
Jesus Christ Superstar, film incredibilmente tollerante, inclusivo, Babilonia musicale ammaliante, rimane qualcosa di unico nel suo genere, capace di toccare più corde della sensibilità individuale e collettiva, di essere fonte di una nuova volontà del credo di uscire dal tempio, di andare tra le persone comuni. Di certo è riuscito a suggerire un legame tra una visione laica e quella religiosa della vita e dell’esistenza, con Gesù Cristo come uomo tra gli uomini piuttosto che come rappresentazione di una potenza ultraterrena, che a molti era sembrata fino a quel momento una sorta negazione dell’umanità con i suoi pregi e difetti. Di fatto parliamo di un film rivoluzionario che non poteva che uscire proprio in quell’inizio di anni Settanta, uno dei periodi più estremi e fertili della cinematografia. Il tutto al servizio di un racconto che era animato da una vis polemica verso sé stesso di incredibile onestà, della lotta contro il mero ipse dixit in virtù di un ragionamento costruttivo, di una liberazione della religiosità dal dogma in quanto tale. Il che, infine, lo rende soprattutto la storia su un uomo, non su un figlio di Dio. La sua morte e la mancata resurrezione sono lì a ricordarcelo dal 1973.