“Jeen-Yuhs”, la straziante trilogia su Kanye West

di Stefano Pistolini (linkiesta.it, 21 febbraio 2022)

Che succulenta meraviglia Jeen-Yuhs, il documentario in tre puntate che Netflix ha appena pubblicato come la Trilogia di Kanye West, quattro ore e mezza che ne raccontano l’incredibile parabola umana e artistica. Un resoconto significativo, perché se c’è un personaggio che si è progressivamente elevato e poi è sprofondato nel delirio questo è Kanye. Eppure questo lavoro è il contrario di ciò che ci si potrebbe attendere, rifugge dalle bizzarrie e dagli eccessi che sono ormai materia prima dell’artista e suo terreno di confronto col mondo – tutto parossismo, “con me o contro di me” – e si presenta come una storia coi piedi per terra e con l’intenzione, ben realizzata, di tracciare la vera storia del 44enne Kanye, in tutta la sua ricchezza e complessità, prima di tutto emotiva.

Netflix

Oggi West è un personaggio delle cronache scandalistiche per i litigi con l’ex moglie Kim Kardashian, per le sparate contro la nuova fiamma di lei, l’attore comico Pete Davidson, per le continue esternazioni inopportune contro cantanti bianche e bionde, da Taylor Swift a Billie Eilish, per i costosi baracconi promozionali con cui prova a dare rilevanza alle sue nuove creazioni. Ye adesso è così, entra sempre a gamba tesa, vive in perenne sopra-voltaggio, la sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti del 2020 è stata una buffonata inguardabile, il suo sguaiato corteggiamento a Donald Trump ha fatto trasalire i fans, il suo disordine bipolare è ormai certificato e pubblicizzato, come la sua propensione ad assumere medicamenti in eccesso.

Tutto è in ridondanza oggi per Kanye, ogni limite va giù di fronte al suo bisogno di espandersi, dilagare, rumoreggiare, esistere. Ma non è stato sempre così, e quest’uomo ha dimostrato subito d’essere in possesso di un dono creativo non comune e di una capacità artistica purissima. Jeen-Yuhs parla di questo, mettendo diligentemente in ordine le immagini più significative e suggestive tra quelle registrate lungo vent’anni (250 ore di nastri) dalle videocamere dei suoi autori, Clarence “Coodie” Simmons e Chike Ozah. Coodie è un giovane videomaker ancora indeciso se imboccare questa strada professionale o privilegiare la vocazione da comedian quando s’imbatte, al passaggio del millennio, nell’acerbo Kanye che sta faticando a farsi largo sulla scena di Chicago, restia a concedergli la patente da vero rapper, anche se già si è fatto notare come produttore di beats e apprezzate basi. Kanye vuole di più e sente di meritarlo. A quel punto Coodie e il suo socio decidono di scommettere su di lui e sulla sua febbre, che ancora contiene umiltà e rabbia: lo seguiranno ovunque nelle peregrinazioni per la Windy City, traslocando poi con lui fino a New York, all’inseguimento del successo o almeno di un riconoscimento che gli conceda legittimità artistica.

Così, c’è sempre Coodie con la sua camera dietro West che avvisa con nonchalance i suoi interlocutori: «Questo fratello sta facendo un documentario su di me». Ma è proprio il tocco di Simmons a essere prodigiosamente leggero, quanto lo sono le sue voci fuori campo con le quali ora connette i segmenti della vicenda. Nelle sue immagini, nel montaggio, nel concept dell’opera regnano affetto e rispetto, fede e perseveranza, e non c’è posto per piaggeria o sottomissione. Coodie sa che Kanye ce la può fare e scommette su di lui mentre affronta le infinite turbolenze dell’emersione dall’anonimato, registrandone i variabili umori, le insicurezze, i nervosismi, le euforie e soprattutto il decisivo rapporto con la madre Donda, che è musa, ispirazione, maestra, ma anche giudice del suo incedere verso l’età adulta. E Donda, nel 2007, scompare prematuramente per il tragico esito di un intervento di chirurgia estetica: è il momento in cui si spezza l’equilibrio di quello che nel frattempo è diventato un artista di successo, approdato al contratto da rapper con la Roc-a-fella di Jay Z e con un album d’esordio, The College Dropout, che ha rivoluzionato le graduatorie del rap americano, catapultandolo sulla vetta, a colpi di copie vendute e nomination ai Grammys.

In un crescendo pieno di riverberi isterici Kanye si riveste di celebrità e s’ammala di padreternismo, dopo che il suo narcisismo è stato a lungo tenuto a bada dalla metrica di perenne confronto che scandisce la scena rap sulle due coste americane. L’elettrico Kanye si tramuta nello strano Yeezy, il suo mandato fiduciario per Coodie s’allenta, la videocamera resta sempre più spenta nella borsa. Se le prime due puntate di Jeen-Yuhs descrivono metodicamente l’ascesa di Kanye e ne registrano con mirabile sensibilità i sommovimenti psicologici, nel terzo episodio il balance s’è rotto, e l’amicizia tra l’uomo con la cinepresa e quello che volle farsi star finisce in soffitta. L’ultima parte della trilogia parla di malattia mentale e di perdita della sintonia con un mondo (anzi più mondi: musica, moda, incarnazione di modelli di ruolo) che non capisce più Kanye e s’è stancato di lui. Servirebbe Donda, che però non c’è più e allora Coodie, nel 2020, con pazienza e immutato rispetto, rimette mano ai vecchi materiali e racconta come sono andate davvero le cose, resistendo ai tentativi da parte di Kanye (così pare di capire) di ottenere il controllo sul final cut del doc.

Il nervosismo cresce, si percepiscono nostalgia e intimità, l’empatia vacilla, lo stato di grazia è svanito. «Siete mai finiti in manette e in manicomio perché il vostro cervello è troppo grande per il cranio?» grida Kanye, fuori controllo. Lo show è straziante, intenso, però, con un piccolo miracolo, ci restituisce la presa di contatto con un artista a cui avevamo rinunciato. Il film di Coodie Simmons ha lo stesso valore magico che tempo addietro raggiunse The Last Dance, la miniserie sui Bulls di Michael Jordan. Emozione, splendore e un sospeso senso dell’effimero che pesa, ma non offusca la grandezza. Brividi che ci ricordano che, più che piangere sul passato remoto, conviene impegnarsi nel cercare di capirlo.

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