«Ero a Woodstock e lì incontrai Joan Baez che mi disse: “Mi piace l’Italia anche se si protesta troppo poco, mi piacerebbe venire a svegliarvi”. E lo fece»
di Lucio Salvini («Sette», suppl. al «Corriere della Sera», 3 febbraio 2017)
«Amore ritorna le colline sono in fiore ed io amore sto morendo di dolore…». Un testo banale e melenso, non esattamente un inno di protesta la canzone che cantava Barry McGuire al Festival di Sanremo nel 1965. Barry era il leader di una formazione vocale americana di 10 persone, The New Christy Minstrels, abbastanza nota negli Usa per il suo repertorio: un mix di gospel e country music.Avevo convinto il loro astuto manager George Greif a partecipare dipingendogli Sanremo come la manifestazione musicale più importante al mondo e Greif, che voleva sfondare in Europa, accettò. Allora le canzoni in gara al Festival erano doppiate da cantanti stranieri ed i Minstrels cantarono Se piangi, Se ridi accoppiati a Bobby Solo e Le colline sono in fiore con una debuttante WiIma Goich. Ebbero grande successo con la Goich e vinsero il Festival con Bobby Solo. Greif era così convinto che i suoi artisti avessero compiuto un’impresa straordinaria che la notte della vittoria inviò un telegramma trionfale al Presidente Johnson cui venne risposto con una nota di felicitazioni. Anche alla Casa Bianca avevano preso sul serio il Festival! Per tutto il suo soggiorno italiano Barry McGuire non lasciò trapelare nulla di quello che gli ribolliva dentro. Disponibile ed accondiscendente, si prestava con pazienza a tutti i riti promozionali cui gli chiedevo di adempiere: interviste, sorrisi e pose per i fotografi a non finire. Spesso scuoteva la testa e parlando con lui avevo l’impressione che quello che stava intorno al Festival, dove tutto veniva preso sul serio, non gli piacesse troppo ma nulla rivelava in lui il fuoco della ribellione. Quando lo salutai all’aeroporto ero convinto che non avrei mai più sentito parlare di lui. Pochi mesi dopo, invece, lasciati i Minstrels, girava in Harley per le strade di Santa Monica. Con i lunghi capelli biondi disordinati dal vento, un’aria di sfida al mondo ed una camicia hawaiana aperta fino all’ombelico sbancava le classifiche di tutto il mondo con Eve of distruction, un incitamento alla protesta contro la guerra in Vietnam e soprattutto sulla fine inevitabile che la nostra civiltà avrebbe fatto continuando nell’inutile corsa agli armamenti: «Sei abbastanza grande per uccidere ma non abbastanza per votare…». Non finiva l’anno che il brano era diventato l’inno della protesta a Berkeley e di tutti gli studenti arrabbiati del mondo. Lo rividi di sfuggita a Woodstock nel ’69 che si aggirava nel retro del palco come un leone in gabbia (non era stato invitato). Ma se Barry McGuire aveva il phisique del ribelle lo stesso non si può dire di Joan Baez. Una voce angelica, un volto mite e sorridente nascondevano una determinazione incrollabile, una tenace e totale dedizione alla difesa dei diritti civili e del movimento pacifista. Una dolcissima barricadera. Incontrai Joan Baez per la prima volta la notte di ferragosto del 1969 a Woodstock. I festival musicali erano diventati il simbolo dell’aggregazione giovanile di protesta. Negli Usa Woodstock sarebbe stata l’ultima grande celebrazione di un sogno iniziato a Berkeley, proseguito a Monterey e all’isola di Wight. In Europa i raduni musicali sarebbero continuati per molti anni ancora. La musica, unica fra le arti, si prese l’incarico di alimentare la protesta e a pensarci bene è stata proprio lei a tenere in vita sogni e talvolta illusioni. Arrivare a Bethel, la piana della contea di Woodstock dove si svolgeva il festival, era stato estenuante per le interminabili code di auto molte ore prima che tutto iniziasse. Avevo ottenuto un passaggio dai fratelli Nesuhi ed Ahmed Ertegun. Figli dell’ambasciatore turco a Washington, ossessionati dalla passione per il jazz, avevano fin dai primi anni Quaranta registrato amatorialmente ed “abusivamente” quasi tutti coloro che sarebbero entrati nella storia del jazz: da Charlie Mingus a John Coltrane, Ornette Coleman ed altri. Si ritrovarono con un patrimonio di nastri e fondarono un impero discografico. Non disdegnavano (soprattutto Ahmed) il pop ed il rock e scritturarono Ray Charles, i Led Zeppelin, Bobby Darin, Sonny & Cher, gli Abba ed altre decine di superstar. Diventarono talmente potenti che comprarono sia la Warner Brothers che la Elektra (quella dei Doors, per capirci). Gli Ertegun andavano a Woodstock per una ragione specifica: Ahmed aveva convinto Crosby Still e Nash, che non ne volevano sapere, ad accettare nel loro gruppo Neil Young. Ora andavano a Woodstock per verificare se l’idea funzionava. Rappresentavo il loro gruppo in Italia, scontato che mi fornissero passaggio e backstage badge. Era ormai notte fonda e Joan Baez aveva appena finito la sua performance. Era la prima volta che la sentivo ed ero rimasto incantato da come interpretava il folk dell’impegno. Era stanca ma bellissima ed affascinante, era incinta di sei mesi con il marito in galera per essersi rifiutato di andare in Vietnam. «Voglio pubblicare i tuoi dischi in Italia», le dissi tutto d’un fiato, «sono convinto che da noi ti ameranno molto». Non sapeva nemmeno chi ero ma ascoltò fino in fondo il mio discorso di convincimento. «Mi piace l’Italia anche se si protesta troppo poco e mi piacerebbe venire a svegliarvi», mi rispose con un gran sorriso, «ma devi parlare con i Solomon, sono loro che decidono queste cose». Maynard e Seymour Solomon erano due fratelli ebrei che avevano fondato da tempo la Vanguard Records, una piccola casa discografica molto attenta ad occuparsi di artisti impegnati nella protesta. Stavano a New York sulla 23a East e pochi giorni dopo raggiunsi con loro un accordo che durò anni e quasi tutti i dischi di Joan Baez furono disponibili in Italia. Non vendeva moltissimo ma divenne subito un’icona molto popolare, una bandiera del movimento di protesta, incidendo anche brani di Dylan, Paul Simon, dei Beatles e perfino di De André. Gianni Minà, infatti, durante una edizione di Blitz le fece interpretare La canzone di Marinella. Memorabile il suo concerto all’Arena di Milano che registrai dal vivo, comprese le sue veementi proteste contro i carabinieri colpevoli di impedire l’ingresso a ragazzi e militanti senza biglietto.
Una pagina di storia. Quando la mattina del 18 agosto Jimi Hendrix, che a causa di ritardi organizzativi non aveva potuto chiudere il raduno come da contratto, iniziò a suonare, 300mila dei 500mila presenti nei 3 giorni precedenti se ne erano andati. La stagione dei festival in America era finita. Rimaneva la memoria del più grande cast mai visto nella storia della musica, tre giorni di love and peace, la strepitosa esibizione di Janis Joplin e le note dell’inno americano (quasi una orazione funebre) che Jimi Hendrix stava suonando nonostante una pioggia insistente. Molti piangevano per l’emozione e la consapevolezza di quello che avevano vissuto. Il prato di Bethel sembrava un immenso campo profughi dopo lo sgombro ma nell’aria del mattino non c’erano echi di disperazione, resisteva persistente la risonanza del giubilo e dell’esaltazione di tutti coloro che avrebbero potuto dire “io c’ero”. In tre giorni tra musica, erba ed Lsd erano anche stati concepiti tanti bambini: i figli di Woodstock. Era tutto finito ma era stata scritta una pagina di storia. Quello che per molti di noi rappresentò l’inizio della rivoluzione pacifista in realtà negli Usa fu l’ultimo sussulto del movimento. Ci sarebbe stata una “coda” straordinaria in Europa, all’isola di Wight, l’anno dopo, il 1970: la straziante ultima esibizione di un visionario Jim Morrison che con i profetici deliranti versi di The End confermava drammaticamente la fine del sogno. Nel giro di due anni alcuni dei più celebri eroi di quella leggenda se ne sarebbero andati per sempre, tutti a 27 anni: Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison. Ma i semi piantati negli Usa, trasportati ed alimentati dalla musica, sarebbero fioriti in Europa, dove stava per aprirsi una stagione artistica straordinaria. Il progressive ed il punk bussavano alla porta.