(ilpost.it, 18 febbraio 2021)
Mercoledì sera in diverse città della Spagna ci sono stati scontri e manifestazioni contro l’arresto di Pablo Hasél, un rapper piuttosto noto che era stato condannato a nove mesi di carcere per aver insultato la Corona e aver incitato al terrorismo attraverso la sua musica e i suoi tweet. Lunedì Hasél si era chiuso in un edificio dell’Università di Lleida, in Catalogna, rifiutandosi di presentarsi spontaneamente in carcere, cosa che avrebbe dovuto fare venerdì. Il caso di Hasél e le manifestazioni in suo sostegno hanno fatto riprendere un ampio dibattito su come viene trattata la libertà di espressione in Spagna, tema di cui nel Paese si discute da tempo.
Martedì mattina i Mossos d’Esquadra, la polizia catalana, hanno fatto irruzione nella sede dell’Università di Lleida in cui si era rinchiuso Hasél: hanno superato le barricate e le resistenze degli attivisti che provavano a difenderlo e hanno arrestato il rapper, portandolo nel carcere della città. Mercoledì sera migliaia di persone si sono ritrovate per manifestare contro l’arresto di Hasél, sia a Madrid sia in diverse città catalane. A Madrid ci sono stati scontri tra i manifestanti e la polizia, che ha usato gas lacrimogeni e proiettili di gomma per far disperdere la folla, mentre alcuni manifestanti hanno dato fuoco a bidoni della spazzatura nelle vie limitrofe alla Puerta del Sol, in centro città. A Barcellona, Lleida, Girona e Tarragona, in Catalogna, i Mossos d’Esquadra hanno arrestato una trentina di persone che erano state coinvolte nelle proteste di mercoledì: il giorno precedente, dopo l’arresto di Hasél, sempre in Catalogna c’erano già stati alcuni scontri in cui erano rimaste ferite 55 persone e altre 18 erano state arrestate.
Pablo Hasél, il cui vero nome è Pablo Rivadulla Duró, ha 33 anni, è comunista ed è un grande sostenitore dell’indipendenza catalana; in passato si era espresso anche in favore dell’Eta, il gruppo terrorista e separatista dei Paesi Baschi, oggi dissolto. L’Audiencia Nacional, alto tribunale spagnolo con sede a Madrid, lo aveva condannato a nove mesi di carcere, sei anni di “inabilitazione” – che comporta la sospensione di alcuni diritti – e al pagamento di una multa di 30mila euro per i reati di incitamento al terrorismo e insulto contro sia la Corona sia le istituzioni. Hasél aveva scritto diversi tweet offensivi contro la polizia e contro la monarchia, dicendo per esempio che «per colpa dell’Arabia Saudita i bambini in Yemen soffrivano tremendamente. Cose tipiche degli amici democratici di quei mafiosi dei Borboni», riferendosi alla famiglia reale spagnola. Come prova contro di lui, l’accusa aveva portato anche il video della canzone Juan Carlos el Bobón (Juan Carlos, il cretino), nella quale Hasél se la prendeva soprattutto con re Juan Carlos I e con il governo spagnolo, accusato di avere legami con la dittatura di Franco. Tra le altre cose, Hasél aveva pubblicato una fotografia di Victoria Gómez, che faceva parte del gruppo terroristico marxista Grapo, oggi scomparso, che tra il 1975 e il 2006 rivendicò più di 80 omicidi. A fianco della foto di Gómez, Hasél aveva scritto: «Le manifestazioni sono necessarie ma non sufficienti, appoggiamo quelli che vanno oltre».
Dopo essersi chiuso nell’Università di Lleida, lunedì, Hasél aveva scritto che avrebbero dovuto «farla esplodere prima di arrestarmi e mettermi in carcere». La condanna e l’arresto di Hasél sono stati molto discussi e hanno riaperto un grande dibattito sulla libertà di parola ed espressione in Spagna. Secondo i critici, le pene contro chi commette i cosiddetti reati d’opinione sono troppo severe. Inoltre, il governo non aveva mantenuto la promessa di ammorbidire le pene relative ai reati legati alla libertà di espressione, come aveva detto di voler fare già nel 2018. A inizio febbraio oltre 200 artisti, tra cui il regista Pedro Almodóvar e il cantautore Joan Manuel Serrat, avevano scritto una lettera aperta per chiedere di non incarcerare Hasél. Nella lettera dicevano, per esempio, che lo Stato spagnolo avrebbe dovuto smettere di comportarsi alla stregua di «Paesi come la Turchia e il Marocco, dove diversi artisti sono in carcere per aver denunciato gli abusi commessi proprio dallo Stato». Negli stessi giorni, il governo aveva annunciato che avrebbe rivisto le pene per i reati legati alla libertà di espressione «più controversi», in modo da punire solamente quelli che comportano un «chiaro» rischio per l’ordine pubblico o l’insorgere di incidenti violenti. Uno degli obiettivi di queste modifiche sarebbe evitare che in futuro questi reati vengano puniti col carcere, ma soltanto con pene più lievi.