di Kristin Corry (vice.com, 4 dicembre 2019)
Per tutto il decennio passato, l’America è stata divisa in due. Con Barack Obama è arrivata l’idea di un’utopia “post-razziale”, utopia che abbiamo visto crollare nel 2015 quando Donald Trump ha annunciato la candidatura a presidente. To pimp a butterfly di Kendrick Lamar, pubblicato tre mesi prima della discesa in campo di Trump, era un lamento per la posizione ambigua della nazione a quella divisione.Usando il linguaggio del rap, del jazz e del funk — generi sviluppati da musicisti neri — Butterfly racconta la storia di un valore profondamente americano: la libertà. Per oltre un’ora, Lamar evidenzia i parallelismi tra la tratta degli schiavi e l’industria dell’intrattenimento, in cui, ironicamente, la cultura nera è ancora vista come moneta di scambio. La scrittura, brutalmente sincera e attuale, fotografa problemi come il razzismo istituzionalizzato con canzoni come Alright, adottata come inno ufficioso del movimento Black Lives Matter. Nel corso dell’album, una frase viene ripetuta sei volte: «Mi ricordo che eri combattuto, avevi perso la tua influenza / A volte ho fatto lo stesso». La ricerca di Lamar, tuttavia, era legata a doppio filo alla responsabilità che deriva dall’essere un artista nero durante un periodo di malcontento sociale e politico. How much a dollar cost? non era soltanto il titolo di una canzone, ma una sfida lanciata ad altri musicisti.
In conseguenza all’impegno di To pimp a butterfly per offrire un valido commento culturale, Beyoncé, Solange, Kanye West, Frank Ocean e Rihanna hanno tutti pubblicato album provocatori e avanguardistici durante l’ascesa di Trump come candidato presidente, riportando in auge la tradizione della musica nera come musica di protesta. Per Kanye West e Frank Ocean creare controversie non era una novità, ma con questi album Beyoncé e Rihanna hanno deviato dalla strada di pop star apolitiche che avevano aperto in precedenza. Perché proprio adesso? Le morti di Trayvon Martin e Michael Brown, entrambi adolescenti disarmati, avevano dato alla luce il movimento Black Lives Matter, che poneva il problema della protezione delle persone nere nella società americana. Alright parlava senza filtri proprio di questo. «Ni**a e noi odiamo la polizia / Ci vuole ammazzare per strada, sicuro», rappava Lamar. I nomi di Freddie Gray, dei nove fedeli della chiesa Mother Emanuel di Charleston, di Sandra Bland e altri venivano aggiunti agli hashtag in ricordo degli americani neri che erano stati uccisi solo perché il colore della loro pelle veniva percepito come una minaccia. Black Lives Matter fu la Persona dell’Anno per Time nel 2015, pochi mesi dopo la morte di Brown. Ma nonostante la crescente influenza del movimento, le persone nere in America continuavano a morire.
Mentre l’influenza dell’organizzazione cresceva, Obama si avvicinava alla fine del suo mandato e i riflettori erano tutti puntati su di lui. Nel 2015, Obama ha difeso il movimento. «Penso che chiunque sia in grado di capire che tutte le vite importano», ha detto durante un panel sulla giustizia tenuto alla Casa Bianca. «Penso che con l’espressione “Black Lives Matter” gli organizzatori non vogliano suggerire che le vite degli altri non importano». Eppure, gran parte dei candidati alla presidenza nel 2016 non la pensava come lui. Il repubblicano Ben Carson pensava che ci fossero «colpe di tutte le parti», mentre Ted Cruz chiamava il movimento «inquietante» e «vergognoso». Democratici come Hillary Clinton evitavano accuratamente l’argomento, rendendo Bernie Sanders l’unico candidato a pronunciare esplicitamente la frase «Black lives matter». Ma Donald Trump non ha avuto peli sulla lingua quando si è trattato di esprimere la sua posizione. «Penso che siano un problema», Trump ha detto, intervistato da Bill O’Reilly. «Il fatto è che tutte le vite sono importanti». Il comportamento razzista di Trump è ben documentato e la prospettiva di vederlo alla guida della Casa Bianca a mettere in pratica queste idee era alquanto ansiogena.
Prima di correre per la presidenza, Donald Trump era un imprenditore immobiliare di New York con un potere immenso. Nel 1973 il Dipartimento di Giustizia denunciò Donald e Fred Trump (suo padre) per «aver mentito sulla disponibilità di appartamenti per i neri», contravvenendo alla legge sul diritto alla casa del 1968. Vent’anni dopo, i pregiudizi di Trump non erano più nascosti. Comprò una pagina in quattro giornali newyorkesi dopo che Yusef Salaam, Kevin Richardson, Antron McCray, Raymond Santana e Korey Wise, oggi conosciuti come Exonerated Five, furono accusati di stupro e violenza contro una donna che faceva jogging a Central Park. Nel suo annuncio, Trump chiedeva l’esecuzione dei cinque adolescenti — nonostante l’assenza di tracce di Dna che li collegassero al reato. «RIDATECI LA PENA DI MORTE. RIDATECI LA NOSTRA POLIZIA!» recitava la pagina di giornale. Col senno di poi, sembra preannunciare quel «Make America Great Again» che ha accompagnato la sua presidenza, rappresentando lo stesso bisogno di ritornare a un passato storico immaginario.
La campagna elettorale di Trump è stata spacciata per patriottismo e lui ha passato gli anni precedenti a tentare di distruggere ogni cosa che non fosse allineata alla sua definizione di America. Tre anni dopo l’insediamento di Barack Obama, Trump ha cominciato a mettere in discussione pubblicamente la sua cittadinanza. «Non puoi fare il presidente se non sei nato in questo Paese», ha detto nel 2011. «Al momento, io ho dei dubbi». Il magnate dell’immobiliare diventato star dei reality sosteneva di aver fatto partire un’indagine per poter vedere il certificato di nascita del presidente e anche i suoi voti all’università. Alla fine è saltato fuori che il certificato di nascita di Obama era vero e Anderson Cooper non è stato in grado di trovare alcuna prova del fatto che questa indagine di Trump fosse realmente avvenuta — e Trump non ha fornito alcuna prova a suo sostegno. Il suo attacco al Capo dello Stato, oltre al suo pregiudizio di lunga data verso la comunità nera, ha creato un senso di terrore percepito addirittura dalle maggiori star dell’hip-hop.
Nel 2016 Beyoncé festeggiava vent’anni di carriera, perfettamente concepita per conquistare le masse. Era sexy, a volte buffa e pericolosamente innamorata, ma mai esplicitamente politicizzata fino a Formation. La cantante di Houston ha pubblicato uno sconvolgente video diretto da Melina Matsoukas che ritraeva alla perfezione gli effetti della violenza della polizia nelle comunità nere. Beyoncé rannicchiata sul tettuccio di un’auto della polizia di New Orleans che affondava non era una semplice provocazione, ma puntava il dito contro la stessa violenza di Stato denunciata da Black Lives Matter mentre, allo stesso tempo, tributava un omaggio alle famiglie nere ancora sfollate a dieci anni dall’uragano Katrina. Una delle scene centrali del video ha una fila di poliziotti in assetto antisommossa schierati davanti a un ragazzino nero che balla, illustrando la differenza tra la minaccia percepita e una vera minaccia. Cantando la canzone durante l’intervallo del Super Bowl il giorno dopo vestita in abiti che ricordavano il partito rivoluzionario delle Pantere Nere negli anni Sessanta, i conservatori hanno detto che il suo messaggio era “anti-polizia”. Beyoncé non era d’accordo. «Ma mettiamo in chiaro le cose: io sono contro la violenza della polizia e l’ingiustizia, si tratta di due cose diverse», ha detto in un’intervista del 2016 per Elle Magazine.
Formation è stato solo il preludio per la musica di protesta di Beyoncé; l’uscita di Lemonade, il suo sesto album in studio, ha continuato a seguire le briciole sul sentiero del suo primo singolo. Freedom, con Kendrick Lamar, è l’unica altra canzone che chiama in causa direttamente il tumulto in corso. «Farò una rivolta, una rivolta oltre i vostri confini / Chiamami a prova di proiettile», canta. Invece di riempire Lemonade di retorica politica come Butterfly, Beyoncé ha parlato di attivismo con parole tutte sue. La parte di Lemonade che lo fa amare di più è che risulta il suo album più intimo, che squarcia il velo della sua maschera di perfezione. L’album è incentrato sull’infedeltà, cosa che ha fatto emergere dei sospetti sul suo matrimonio con Jay Z. Ma la sua rabbia era chiarissima. Veniva a galla in canzoni come Hold up e traboccava nel duetto con Jack White di Don’t play yourself. Il disco è un’ode alla femminilità nera del Sud, e il più grande momento di trasparenza per la cantante. Magari non è stato una protesta così diretta come Butterfly, ma lei ha scelto di onorare l’essere nere e donne in un momento in cui il mondo non stava facendo lo stesso.
Mentre Beyoncé usava Lemonade per parlare delle grandi ingiustizie, A seat at the table di sua sorella Solange Knowles è un disco più intimo, che racconta le quotidiane microaggressioni subite dalla comunità nera — in particolare dalle donne nere. Era «esausta di come va il mondo», ma aveva abbastanza forza per cacciare le mani bianche dal toccare i capelli neri. L’album grondava ansia: in alcune canzoni, come Cranes in the sky, erano state scritte fino a otto anni prima della loro uscita. Solange le ha provate tutte: ha ballato, ha dormito, ha provato a trasferirsi in altri Stati, ma non poteva liberarsi della sensazione di essere nera in America. «Ricordo di aver pensato a Cranes come metafora della mia transizione — questa idea di accumulare sempre di più, sempre sempre di più, era quello che stava succedendo nel nostro Paese in quel momento, tutto un costruire senza voler guardare in faccia quello che stava succedendo davanti ai nostri occhi», aveva detto a Beyoncé in Interview Magazine. «E otto anni dopo, è davvero interessante che ora siamo di nuovo qui, a non vedere che cosa sta succedendo nel nostro Paese, a non voler mettere in prospettiva tutte queste brutte cose che ci guardano dritte in faccia». Uscito poche settimane prima dell’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti, A seat at the table suonava tanto disperato quanto Butterfly. Era l’album che trovava le parole per descrivere la perdita di speranza, l’idea di non sapere se avresti mai visto un’altra famiglia nera al potere. Solange ha usato l’album per placare questi pensieri di incertezza, dando alla comunità nera il potere di credere che le nostre storie avessero un valore e uno spazio loro, dipingendo ritratti di sua madre, di suo padre e di Master P. Adottando il mantra della linea di streetwear anni Novanta “Fatto da noi, per noi”, Solange non produceva un album per le masse. «Non sentirti male se non puoi cantare con me / Accontentati di avere tutto il mondo, il mondo per te» canta, rivolgendosi all’uomo bianco. «Questi siamo noi / Questa roba è per noi / Certa roba non la puoi toccare».
Che il loro messaggio fosse voluto con la stessa forza delle sorelle Knowles o meno, gli artisti neri hanno rappresentato il caos del 2016. In The life of Pablo Kanye West sperimentava con il gospel usando elementi della chiesa afroamericana, conosciuta come luogo sicuro per la comunità in periodi di tumulto politico, in canzoni come Ultralight beam e Father stretch my hands. In Pt. 2 urla «Voglio solo sentirmi liberato», e lo volevamo anche noi, ma questo incontro (poi diventato amicizia) con Trump, quello stesso dicembre, ci ha fatto chiedere da cosa il rapper di Chicago volesse fuggire. La liberazione era un filo che correva anche lungo Anti di Rihanna, anch’esso in opposizione al suo personaggio pop estremamente curato degli anni precedenti. L’album allargava il ventaglio di quello che una donna nera nel pop poteva fare; per esempio, poteva fare un album in cui portava con orgoglio la sua lingua creola delle Bahamas come una medaglia in una canzone come Work, o poteva coverizzare i viaggioni psichedelici dei Tame Impala. Quella stessa flessibilità, esercitata da un artista come Frank Ocean fin dall’inizio della sua carriera, si vede in Blonde, uscito in agosto dello stesso anno. Anche nei testi di Ocean, anche se a tratti comici, si viene riportati alla pesantezza del mondo. «Versane uno per A$AP, R.I.P. Pimp C / R.I.P. Trayvon, quel ni**a è uguale a me», canta in Nikes. Gli album che sono stati la colonna sonora del 2016 erano ancora in grado di catturare gli elementi del dolore nero, anche se quei momenti stavano passando.
La musica nera è sempre stata una forma di resistenza e continuerà a esserlo anche dopo la fine dell’amministrazione Trump. Ha resistito ai campi di cotone, all’epoca di Jim Crow e alla guerra in Vietnam. Il successo commerciale raccolto da Marvin Gaye quando è passato dalla ultra-sexy Let’s get it on a What’s going on, un disco socialmente impegnato, ha spianato la strada ad artisti come Beyoncé e Solange perché creassero opere che avessero un significato più profondo della loro posizione in classifica. «Quello che importava era il messaggio», aveva detto Gaye. «Per la prima volta, mi sono sentito di aver qualcosa da dire». Si è sempre detto che l’arte migliore viene dai maggiori tumulti, frase che sembra confermata da quello che abbiamo visto accadere nel 2016, ma è difficile non chiedersi anche: che cosa creerebbero gli artisti neri se venisse loro concesso di vivere?