di Giovanni Francesio (ilfoglio.it, 23 ottobre 2020)
È difficile capire quando finisce un secolo. Molto più facile dire quando non finisce, ossia con le cifre tonde, con il calendario. Non è mai così, perché c’è sempre una variante, un allungarsi o un contrarsi del tempo, un evento storico spiazzante, che improvvisamente svela come siano cambiati i paradigmi, i modi di pensare e di vivere, e con loro la società e la politica e la cultura. Solo a quel punto, voltandosi indietro, o riuscendo a guardare in avanti, ci si rende conto di essere entrati in una stagione nuova. Lo sport, ormai non lo nega più nessuno, è stato uno degli aspetti caratterizzanti, uno dei tratti distintivi del XX secolo, sia per la sua carica simbolica, sia per la sua concreta ricaduta sociale, politica e culturale.La figura dell’eroe popolare dopo la Prima guerra mondiale è rapidamente passata dalla dimensione bellica a quella sportiva, e con essa un intero immaginario collettivo. Dopo Francesco Baracca e il Barone Rosso, le guerre del XX secolo, salvo rarissime eccezioni, non hanno più creato miti e leggende, mentre molto presto hanno iniziato a imporsi i “campionissimi” dello sport, come peraltro testimoniano perfettamente alcuni passaggi di testimone simbolici, tra cui, il più eclatante, il cavallino rampante che passa dalla carlinga dell’aereo proprio di Francesco Baracca alla più celebre auto da corsa di tutti i tempi.
E dal Primo Dopoguerra in poi l’intreccio tra sport, politica, società e cultura popolare è rimasto indissolubile per cento anni. Non c’è un evento storico del Novecento, una battaglia politica e civile che non abbiano avuto anche una dimensione sportiva, a cominciare dalla cupa e terribile stagione dei totalitarismi, che ha visto nello sport sia il principale strumento di propaganda dei regimi (da Primo Carnera affacciato al balcone di Palazzo Venezia ai Mondiali di calcio del 1934, per rimanere in Italia) sia uno dei maggiori veicoli simbolici dell’opposizione e della resistenza ai regimi (Jesse Owens che domina le Olimpiadi di Berlino del 1936, il pugile zingaro Johann Trollman che si cosparge di farina sul ring per “arianizzarsi”…). E poi, nel Secondo Dopoguerra, Gino Bartali che, dopo anni di antifascismo discreto ma rischioso ed efficace, nel 1946 vince il Tour de France e placa gli animi sull’orlo della guerra civile dopo l’attentato a Togliatti; il “bagno di sangue” alle Olimpiadi del 1956 di Melbourne nella partita di pallanuoto tra Russia e Ungheria; Cassius Clay che diventa Muhammad Ali e finisce in carcere per renitenza alla leva; il podio dei 200 metri di Città del Messico nel 1968; le magliette rosse di Bertolucci e Panatta in Cile nel 1976; la “democrazia corinthiana” di Sócrates durante la dittatura militare in Brasile; Martina Navratilova che – nel 1981 – dichiara la sua omosessualità; le curve degli stadi di Zagabria e Belgrado che anticipano la guerra civile jugoslava… Potremmo continuare all’infinito, e attraversare alla luce dello sport ogni snodo grande o piccolo della storia politica e culturale di questo secolo così intriso di tragedia, fino a Colin Kaepernick e Lewis Hamilton in ginocchio, a ricordare che “Black Lives Matter”.
Una commistione, tra sport e società e politica, che è stata originata dal rapporto strettissimo, simbiotico, che lo sport del Novecento ha avuto con la massa; la massa che secondo Elias Canetti è l’unica dimensione nella quale «l’uomo può essere liberato dal timore di essere toccato […]. Dal momento in cui ci abbandoniamo alla massa, non temiamo d’esserne toccati. Nel caso migliore, si è tutti uguali. Le differenze non contano più, neppure quella di sesso. Chiunque ci venga addosso è uguale a noi. Lo sentiamo come ci sentiamo noi stessi. D’improvviso, poi, sembra che tutto accada all’interno di un unico corpo». Il Novecento è stato il secolo delle masse, e per questo è stato anche il secolo dello sport, perché le “masse popolari”, le cui pulsioni e aspirazioni sono confluite nei grandi movimenti politici e nei grandi partiti, erano poi le stesse “masse sportive” che accorrevano ad assistere agli eventi, vissuti come grandi momenti collettivi, e che poi si alimentavano e allargavano attraverso il racconto orale, nelle case, nei bar, alla radio.
Questo rapporto tra sport e massa si è incrinato qualche decennio fa, alla fine degli anni Ottanta – è difficile capire quando finisce un secolo –, nel momento in cui la televisione ha cominciato a impadronirsi con prepotenza dello sport, imponendo sempre più il proprio racconto a quello della massa, e alla fine, grazie al miglioramento della tecnologia e al proliferare delle telecamere, sostituendolo: non più una moltitudine che si faceva un corpo solo, e che si alimentava di una narrazione polifonica, ma un racconto univoco che si rivolge istantaneamente a milioni di singolarità, e di solitudini. L’avvento della rivoluzione digitale e della sua declinazione più pervasiva, i social network, ha poi radicalizzato tutto, affiancando al racconto il commento, che oggi si esercita in diretta, con una immediatezza fagocitata, isterica e totalmente autoreferenziale che finisce per compromettere non solo il fascino, ma il senso stesso dell’evento sportivo, completamente soverchiato, marginale, pretestuoso. Non c’è più il racconto, non c’è più il fatto. Tutto diventa opinione, tutto diventa commento.
E ora, alla fine, a imprimere una vorticosa accelerazione a mutamenti già in atto, è arrivata la pandemia, che ha portato al massimo livello “il timore dell’uomo di essere toccato”, e ha disintegrato il fascino della massa, del corpo unico, e un secolo di storia occidentale. Non c’è niente, niente, che rappresenti meglio la fine del Novecento come i nostri stadi vuoti degli ultimi mesi, relitti di un mondo finito, cattedrali di un altro tempo, tra l’archeologia e Call of Duty. E li vediamo così, proiettati nel futuro, abbandonati, perché c’è qualcosa che ci dice che non serviranno più, perché i secoli finiscono, e le cose cambiano, e lo sport in questi pochi ma definitivi mesi ha concluso il suo trapasso da mito popolare a intrattenimento individuale e digitale, alimento di quella solitudine collettiva che sempre più sembra essere la cifra del nostro tempo nuovo.