di Vladimir Crescenzo* (linkiesta.it, 12 agosto 2024)
A volte il calcio è il prolungamento della politica e in tal caso viene usato come uno strumento di soft power; sia per far esistere territori la cui sovranità è contestata, sia per acquisire peso nelle relazioni internazionali, sia attraverso l’organizzazione della competizione regina. L’idea è sempre la stessa: rafforzare le proprie posizioni senza dover ricorrere alla forza.
Sebbene la storia ci abbia insegnato che organizzare una Coppa del mondo non garantisce in alcun modo che il Paese organizzatore non faccia successivamente ricorso alla forza, è raro che ciò avvenga come conseguenza diretta di una partita di calcio. Tuttavia, è ciò che è successo in seguito a una partita disputata allo Stadio Nazionale di Tegucigalpa fra Honduras ed El Salvador, due Paesi storicamente e culturalmente vicini.
È l’8 giugno 1969 e l’Honduras ospita il Paese vicino per una sfida che consentirà al vincitore di staccare il biglietto per il Mondiale del 1970, in Messico. Sarebbe anche la prima volta per entrambe le nazioni, per cui la posta è alta. In questa partita di andata occorrerà attendere gli ultimi secondi per vedere i salvadoregni lasciarsi scappare il pareggio che si apprestavano a portare a casa (finisce 1-0 per l’Honduras). L’Honduras vince di misura, senza dubbio aiutato dai propri tifosi che, alla vigilia, hanno molestato i giocatori salvadoregni nel loro albergo, impedendogli di dormire.
È dunque innanzitutto una guerra psicologica quella che si scatena. In occasione della partita di ritorno, disputata il 15 giugno a San Salvador, l’hotel dei giocatori onduregni va a fuoco. Non ci sono feriti, ma il clima è segnato dall’evento. Pompata dai precedenti della partita d’andata, la Nazionale del Salvador travolge l’Honduras 3-0. Una vittoria a testa, per cui dovrà esserci lo spareggio. Ma se il tutto era ormai fuoruscito dal quadro meramente sportivo, gli eventi prenderanno una china ancora più tragica.
Va detto che dall’inizio degli anni Sessanta, i rapporti tra le due nazioni sono tesi. L’odio per i salvadoregni, eletti a capro espiatorio di tutti i mali del Paese, non cessa di aumentare in Honduras. Dopo qualche anno il governo arriva a espropriare i terreni dei contadini salvadoregni per espellerli. Ecco dunque il contesto generale in cui dovrà svolgersi il terzo atto di questa competizione, che cristallizza un decennio di rancori e si prepara ad agire da detonatore di quella che è ormai nota come “la guerra delle cento ore”. Dopo il fischio finale della partita di ritorno, i tifosi onduregni che erano andati in trasferta a El Salvador vengono attaccati all’uscita dello stadio. Per rappresaglia la minoranza salvadoregna in Honduras viene a sua volta molestata, i suoi negozi saccheggiati e le auto bruciate. In dieci giorni 10.000 salvadoregni sono costretti a fuggire.
Il 28 giugno, al momento di disputare il terzo incontro in campo neutro, in Messico, il piano di sicurezza è impressionante. Il confronto è serrato e occorre attendere la fine dei supplementari perché si decida, a favore del Salvador (3-2), che disputerà quindi la prima Coppa del mondo della sua storia un anno più tardi. Ma prima che ciò avvenga, l’escalation innescata dalle tre partite prosegue. Poco dopo l’assassinio del viceconsole salvadoregno (il 4 luglio), il Salvador invade l’Honduras (il 14 luglio). Sotto la pressione della comunità internazionale, le ostilità cessano quattro giorni dopo, il 18 luglio.
3.000 civili perdono la vita e tra i 60.000 e i 130.000 salvadoregni fuggono dall’Honduras. Le due squadre verranno sospese dalla Concacaf, la Confederazione Nordamericana. Il che non impedirà alla selezione salvadoregna di andare al Mondiale del 1970, sia pure con il magro bilancio di tre sconfitte e zero gol segnati, un primato nella storia della Coppa del mondo.
*da: Vladimir Crescenzo, Il giro del mondo in 80 stadi, Meltemi, Milano 2023