di Enrico Bucci (ilfoglio.it, 18 agosto 2022)
Durante le prossime elezioni, assisteremo a un fenomeno nuovo, o perlomeno a un fatto che si verifica a una scala prima non osservata: la presenza di candidati scelti fra le fila della comunità scientifica, in opposizione a una congerie più vasta del solito di candidati provenienti dall’area di chi invece alla scienza si oppone, e vorrebbe sostituirvi la propria credenza preferita (o, per meglio dire, il proprio insieme di cospirazioni alternative). Non mi occuperò di questi ultimi, che hanno rotto gli argini della decenza dai tempi in cui il MoVimento 5 Stelle ha imbarcato i sostenitori espliciti di ogni sorta di sciocchezze, purché fossero una manifestazione di opposizione a quanto fatto dai loro predecessori; non me ne occuperò, anche se, senza dubbio, pure in questo caso si osserva nel momento attuale un fenomeno che agisce su scale ben diverse da quelle sin qui viste, con intere liste fondate in aperta contrapposizione alle “verità ufficiali”, al “sistema”, e in supporto di ogni sorta di castroneria utile a scaldare gli animi.
Mi interessa di più, invece, discutere brevemente con i miei lettori della diretta partecipazione alle elezioni e alla vita politica del Paese da parte di accademici e ricercatori che, avendo acquisito una più o meno meritata visibilità durante la pandemia per il loro impegno comunicativo, sono oggi stati messi in lista da questo o quel partito, oppure, quando non sono stati candidati, sono stati fortemente suggeriti, o si sono essi stessi offerti per compiti politici. Bassetti, Lopalco, Crisanti: sono nomi che tutti conosciamo, e ad alcuni di essi mi lega un rapporto diretto, se non una vera e propria amicizia; mi perdoneranno gli amici e chi mi conosce se solleverò qualche obiezione al loro operato o, per lo meno, qualche interrogativo su quanto vedo accadere, e pazienza invece per gli altri.
Cominciamo da un punto in premessa: chi obietta dicendo agli scienziati, definendoli spregiativamente virostar, che ognuno deve fare il suo mestiere, e che non bisognerebbe cavalcare l’onda della popolarità acquisita sulla base della propria competenza per candidarsi in politica, fa un errore grossolano. Seguendo questo principio, nessuno che abbia una propria professionalità e una propria competenza potrebbe mai candidarsi, giacché per tutti dovrebbe valere l’invito a “fare il proprio mestiere”; non è questo il punto rilevante e, francamente, in un Paese ove si candidano magistrati, avvocati, professori di Diritto, filosofi, imprenditori, non si vede perché non dovrebbero candidarsi dei ricercatori e dei medici, e fra questi ovviamente coloro che hanno assunto una visibilità tale da poter ragionevolmente chiedere il voto dei cittadini.
Sgomberato il campo da questa comune, ma erronea, obiezione, andiamo dunque al sodo: il problema specifico e più importante che riguarda la candidatura di uno scienziato in politica è la confusione dei piani che può realizzarsi, quando in politica si utilizzi la notorietà e l’autorevolezza di chi persegue con metodo scientifico la ricerca in un settore specialistico, allargando il campo alla battaglia e alle conciliazioni degli interessi che sono il dominio proprio della politica. Se, cioè, un partito usa la voce di uno scienziato per attaccare una parte politica avversa, invece che apprenderne il metodo o attenersi alle sue conclusioni per prendere una decisione orientata al rispetto del consenso scientifico stabilito, si sta travestendo il lupo della politica con la pelle dell’agnello scientifico, pretendendo di identificare la propria parte come la portatrice della voce della scienza, quando al più si è arruolato uno scienziato nelle proprie liste, il quale, per quanto importante e acuto sia, non rappresenta certo la scienza.
Naturalmente per un partito l’importante è canalizzare il “voto alla scienza”, attingendo alla comunità dei conoscitori del personaggio messo in lista, esattamente come quando in lista si mette un famoso campione sportivo o un’altra celebrità: l’operazione compiuta è sempre la stessa, e va intesa esattamente per ciò che è. Dal punto di vista del candidato-scienziato, questo implica un dovere etico imprescindibile, che però cozza contro l’interesse del partito appena evidenziato: il difficile compito di tenere sempre ben distinti e separati il piano della comunicazione tecnico-scientifica, in cui egli è esperto, da quello della propaganda e della comunicazione utile al partito, indispensabili sia per essere eletto sia per guadagnare il consenso di elettori e politici della propria parte.
Questo è il punto critico, perché è un punto che porta a dovere necessariamente scendere a compromessi in vista della conciliazione di interessi diversi, attività tipica della politica, in barba all’indagine e all’enunciazione della miglior verità che si riesca a trovare con il metodo di Galileo, che è invece il modo di procedere tipico dello scienziato. Attaccare qualcuno dicendo che, seguendone le indicazioni, si sarebbero avuti un 300.000 morti in un dato periodo, è una cosa che può fare un politico, ma non uno scienziato; il secondo, per poterlo fare, deve fornire prove e un modello di quanto afferma, in modo che i propri pari possano valutare matematicamente il peso della sua affermazione. Quando sentiamo questa affermazione da uno scienziato-candidato, è chiaro che abbiamo a che fare con la politica e non con la scienza; tuttavia, non è interesse di alcuno risolvere l’ambiguità, perché quel candidato conta proprio in quanto autorevole scienziato, e spogliarne le affermazioni di autorevolezza scientifica quando sono indimostrate è esattamente il contrario di ciò che si è inteso fare candidandolo.
Mi perdoneranno gli amici e i colleghi (degli altri poco mi interessa): così, forse, si guadagneranno voti, ma certo si perderà l’autorevolezza conquistata con il proprio lavoro, a meno di non tornare ad una maggior sobrietà e a non impegnarsi in una ben dura opera di distinzione, ogni volta che ci si pronuncia come politico o come ricercatore, ricordando dati e numeri, separandoli dalle opinioni. Perché, da ricercatori-candidati, come scienziati si è certo dei campioni, ma come politici dei meri dilettanti; e non c’è bisogno di mettersi a livello dei peggiori fra le due categorie.