
di Guia Soncini (linkiesta.it, 28 aprile 2025)
Chi controlla i meme controlla il mondo, scrisse cinque anni fa Elon Musk, e aveva ragione e lo sapevamo ma non volevamo ammetterlo, ché siamo del Novecento e ci piace complicare il pane: l’idea d’abitare un mondo i cui codici comunicativi sono quelli dei meme, roba che fa sembrare il Bagaglino sofisticato, non è gradevole. Musk stava citando qualcuno, nel dirlo, ma questo non è importante.
Intanto perché l’autore che citava è morto da quasi quarant’anni (quarant’anni fa esistevano i meme?) e poi perché le frasi sono di chi è più famoso, mica di chi le ha pensate per primo. E infatti la frase che serve per commentare il meme del momento è di Lorenzo Jovanotti, non perché sia il più politico dei cantautori in circolazione, ma perché è il più famoso, e quindi quello la cui citazione sei certa verrà riconosciuta da più strati di pubblico.
Ma a Jovanotti ci arriviamo dopo, prima devo spiegare perché la foto di Trump e Zelensky che si allungano sulle sedie parlandosi vicini vicini – in quella sala deserta e diversa da ogni altra che David Lynch avrebbe avuto un’erezione all’idea di girarci una scena, in quello spazio vuotissimo e carichissimo con solo un prelato che sposta una sedia sullo sfondo, quella scena che mette fine a tutti i “sembrano usciti da una puntata di Sorrentino” con cui commentiamo abitualmente le scene in Vaticano – perché quella foto lì è il meme perfetto. È, come sempre accade con le opere autenticamente popolari, una questione di livelli di lettura.
Donald e Volodymyr si sporgono l’uno verso l’altro, quindi il pubblico cattolico può giocare a chi sia il confessore e chi il peccatore: abbiamo tutti ricevuto la prescrizione di tre Pater, Ave, Gloria per mondare i nostri peccati settimanali, e quindi quell’immaginario lì, quello di Rai 1, è coperto. Ma, se si è il pubblico di Canale 5, se si è il pubblico che è nato quando già non era più scontato battezzare i figli, se si è il pubblico cresciuto in questo tempo sbandato in cui i bambini non vanno a catechismo e non sanno cosa sia la Trinità ma in compenso credono in qualunque puttanata, dalla skincare coreana alle criptovalute, allora i due seduti su due sedie messe l’una di fronte all’altra, i due in opposizione ma anche protesi l’uno verso l’altro, per quell’immaginario lì (non lo giudicate, non lo rinnegate) i due sono una tronista e un corteggiatore. E di nuovo: chi è chi?
Donald Trump aveva, al funerale di Jorge Bergoglio, un abito d’un blu non scurissimo. Non era d’un blu scurissimo neanche quello di William d’Inghilterra, neanche quello di Ignazio La Russa, ma di loro non importa niente a nessuno – sempre per quella frase di Jovanotti che, lo so, ancora non vi ho detto. Di La Russa a nessuno importa niente, di William importa solo ai picchiatelli fissati con la famiglia reale inglese. Donald, invece, è quella risposta (in fondo anch’essa un meme) che si dà sui social a chi pare prestarci troppa attenzione: vive nel nostro subconscio rent free, a sbafo, senza pagare l’affitto. Ci ha occupato l’immaginario come una Ilaria Salis in una casa popolare.
Il meme migliore non riguarda la confessione né il trono di Uomini e Donne, il meme migliore è quello in cui sulla testa di Volodymyr c’è un fumetto che gli fa dire a Donald una frase per capire la quale bisogna ricordarsi di quello scontro alla Casa Bianca, che però ci ricordiamo in molti non perché siamo gente informata sulla politica estera, ma perché è, come spesso le cose del Donald, divenuto anch’esso istantaneamente meme. Allora, nella realtà, qualcuno chiese a Zelensky perché non fosse in giacca e cravatta, non ce l’aveva un vestito da persona seria? Adesso, nel meme, è lui a chiedere a Trump: perché non sei vestito di nero? Non ce l’hai un vestito nero?
Esiste un segno di egemonia più limpido dell’essere solo uno tra varie personalità istituzionali che non è in nero né in blu scuro, ma essere l’unico della cui tinta non protocollata da funerale il mondo s’accorge? Donald Trump, fisso a scrocco nei nostri pensieri, è pittato in un verso di quella canzone con cui Lorenzo fa i bis dei concerti: «Nel cuore del conflitto con gli occhiali a specchio, è inutile nasconderlo, si sta da dio». C’è una verità da sapere, da scrutare dietro le lenti a specchio, o quella foto è solo una foto e corrisponde ai criteri che Jovanotti giura di usare per i suoi testi: quei due avranno parlato di niente, come un certo romanziere di metà Ottocento e un certo cantante di questo inizio secolo?
Certo, non c’è bisogno di aver letto Vargas Llosa su Madame Bovary (cosa che comunque consiglio caldamente di fare, il libro si chiama L’orgia perpetua) per sapere che “parlare di niente” è un vezzo, non una verità, è un modo di dire che si dà la priorità allo stile, ma è ingenuo credere che non ci sia comunque una storia. Forse il punto è: ci interessa la storia dietro allo stile? Quelli che si piccano di capire la verità hanno molte ipotesi su come sia andato quel colloquio a due tra l’ucraino e l’americano, c’era Macron che voleva mettersi in mezzo ma Trump l’ha liquidato, no Macron voleva che parlassero tra loro, la terza sedia l’ha portata via il prelato su ordine di questo o di quello, ha tramato un cardinale, no ha tramato Trump e infatti poi gli americani hanno detto che il colloquio è stato molto produttivo, no ha tramato la Meloni che però come tutte le Richelieu del caso si è tenuta fuori da ogni opportunità fotografica, non è nella foto a due né in quella a quattro, no ha tramato Zelensky e infatti la foto del giorno (ma forse dell’anno) l’ha diffusa il suo staff.
Io, che sono serenamente rassegnata all’inesistenza dei fatti e alla sola sopravvivenza delle interpretazioni, non ho alcuna intenzione di provare a capire chi abbia voluto quella foto pazzeschissima, cosa si siano detti, e soprattutto dove diavolo vogliamo andare noi atei della postmodernità se poi per le scenografie fotogeniche ancora nessuno batte quei vegliardi del Vaticano. Io posso anche sperare, per i destini del pianeta, che Trump e Zelensky non si ritrovino come Vargas Llosa diceva stessero Sartre rispetto a L’idiot de la famille e Flaubert rispetto a Bouvard et Pécuchet: «Entrambi si erano prefissati un obiettivo irraggiungibile, erano appesantiti da un’ambizione per certi versi disumana: il totale». Però ho il sospetto che a volerla prendere alta, a distrarci dai meme, ad agitarci pensando di saperla lunghissima e di dover dibattere di geopolitica invece che di didascalie, si finisca anche noi con gli occhiali a specchio, e senza neanche una rima che ci faccia stare da dio.