(ilpost.it, 3 agosto 2023)
Lunedì a Washington prima della partita di tennis fra Elina Svitolina, ucraina, e Victoria Azarenka, bielorussa, gli organizzatori del torneo hanno fatto leggere un messaggio rivolto al pubblico, in cui si segnalava che a fine gara non ci sarebbero state strette di mano fra le due giocatrici. Lo stesso messaggio è comparso anche sugli schermi dell’impianto, mentre s’invitava il pubblico al rispetto di entrambe le atlete e alla comprensione «per le circostanze particolarmente difficili». Era la prima volta che questa comunicazione passava in un torneo della Wta (Women’s Tennis Association), l’organizzazione mondiale del tennis femminile.
Ma le due tenniste si erano già incontrate poche settimane prima. A Wimbledon, a inizio luglio, la mancata stretta di mano aveva provocato proteste, urla e fischi da parte del pubblico. Il pubblico di Wimbledon l’aveva criticato in quanto scelta di poca sportività e rottura delle convenzioni, non considerandone le ragioni. Tornata negli ultimi mesi alle competizioni dopo una pausa per maternità, Svitolina ha chiarito una posizione che aveva già espresso l’anno scorso, e cioè che dopo l’invasione russa dell’Ucraina non intende stringere la mano ad avversarie russe e bielorusse (la Bielorussia è il principale alleato del regime di Vladimir Putin e ha fornito supporto logistico per l’invasione). La questione non si esaurisce con la stretta di mano in sé, ma coinvolge i rapporti fra sport e politica e riguarda le responsabilità personali degli atleti in relazione alle scelte dei governi dei propri Paesi.
Le federazioni internazionali, gli organizzatori di tornei e gli stessi sportivi hanno mostrato di avere opinioni differenti, che hanno portato a scelte opposte riguardo alla stessa ammissione degli atleti russi e bielorussi alle competizioni. Un anno fa proprio Wimbledon decise di vietare l’iscrizione al torneo a russi e bielorussi, una decisione cambiata nell’ultima edizione, con una scelta descritta come «incredibilmente difficile» e arrivata sotto forti pressioni delle organizzazioni tennistiche internazionali (Atp per gli uomini, Wta per le donne). Le stesse autorità ucraine hanno dato indicazioni diverse ai propri atleti, in un primo tempo suggerendo di non competere mai contro russi e bielorussi, poi limitando l’indicazione ai soli avversari che rappresentassero attivamente i rispettivi Paesi e non quando competono come singoli.
Il mancato saluto fra Svitolina e Azarenka e la reazione del pubblico a Wimbledon hanno riacceso il dibattito, che alcuni giorni dopo è uscito dai circoli tennistici per svilupparsi nel contesto dei Mondiali di scherma. Il 27 luglio Olga Kharlan, schermitrice ucraina, è stata squalificata per non aver stretto la mano all’avversaria russa Anna Smirnova dopo averla battuta. Quest’ultima aveva sottolineato il fatto restando in pedana per mezz’ora dopo la fine dell’incontro: la federazione internazionale, dopo le polemiche, aveva riammesso Kharlan nel torneo. Anche per evitare nuove polemiche la Wta ha infine deciso di avvertire il pubblico. Azarenka ha commentato: «Questa cosa arriva con 18 mesi di ritardo. Quindi no, non sono felice». A Wimbledon Azarenka era andata direttamente a bordo campo dopo la sconfitta, senza passare nei pressi della rete, dove normalmente avviene la stretta di mano. Per questo era stata fischiata dal pubblico, che credeva si trattasse di un momento di poca sportività: «Cosa avrei dovuto fare? Lei non vuole stringere le mani a russe e bielorusse, io volevo solo rispettare la sua decisione».
A giugno, al Roland Garros di Parigi, la russa Daria Kasatkina aveva fatto capire a Svitolina di rispettare la sua decisione mostrandole dalla rete il pollice alzato in segno di rispetto. Svitolina lo aveva apprezzato e aveva definito Kasatkina «una persona davvero coraggiosa»: la russa però già in passato aveva espresso posizioni più nette di altri atleti e atlete russe sulla guerra, mostrando pubblicamente solidarietà alle colleghe ucraine. In ogni caso, solo due giorni dopo il pubblico di Parigi aveva mostrato di non capire le ragioni del gesto di Svitolina, che era stata ampiamente fischiata dopo la sconfitta contro la bielorussa Aryna Sabalenka per non averla salutata a fine match. Svitolina aveva ribadito la sua scelta: «I soldati russi stanno uccidendo la nostra gente e i nostri bambini, stanno rapendo i nostri bambini, non possiamo comportarci come se nulla fosse». Aveva anche chiesto che l’annuncio al pubblico fosse introdotto già a Wimbledon, ma la direttrice Sally Bolton si era detta contraria: «Storicamente nel tennis la decisione di come un giocatore si comporta alla fine di una partita è una scelta personale: non vogliamo cominciare a dare indicazioni su come comportarsi».
Il dibattito sulla questione non si è limitato alla gestione del mancato saluto da parte di atlete e organizzatori dei tornei, ma ha riguardato anche l’opportunità della scelta. C’è chi ritiene che il rifiuto di una stretta di mano equivalga a un’accusa diretta nei confronti degli avversari, che in quanto singoli non hanno alcuna influenza o responsabilità sulle scelte del governo russo. Altri, invece, sottolineano come spesso gli stessi atleti vengano utilizzati dalla propaganda e come il gesto politico di non salutarli sia comprensibile e del tutto giustificabile.
Non è una scelta solo di Elina Svitolina, che però è la tennista più forte e famosa fra quelle ucraine. La connazionale Marta Kostyuk si comporta allo stesso modo e un anno fa, nei mesi successivi all’invasione, entrambe avevano accusato i colleghi e le colleghe di Russia e Bielorussia di essersi esposti poco: «C’è un momento in cui il silenzio equivale al tradimento, e questo momento è ora». Kostyuk aveva aggiunto: «Per me dire “No alla guerra”, come hanno fatto alcuni tennisti russi, è troppo vago, può voler dire troppe cose». È stato però fatto notare che per sportivi come Andrei Rublev, che vive a Mosca, e Daniil Medvedev, che ha famiglia in Russia, esporsi pubblicamente può essere particolarmente pericoloso: in Russia il dissenso sulla guerra può portare a condanne fino a 15 anni di prigione. Svitolina e Kostyuk hanno in parte ammorbidito le proprie posizioni, ma non hanno cambiato la decisione di non stringere la mano a russe e bielorusse. Una decisione che, comunque, molti continuano a non condividere.
In un editoriale intitolato Una protesta nel tennis finita fuori bersaglio, il Washington Post ha scritto: «Se c’è una cosa che sappiamo di Russia e Bielorussia è che gli atleti hanno poca influenza – e quindi poche responsabilità – sulle azioni bellicose dei loro regimi autoritari. Inoltre, alcuni di questi giocatori hanno criticato la guerra o espresso solidarietà alle sue vittime. Un mondo illuminato apprezza la distinzione tra i regimi e i loro sudditi. Stringete quelle mani». Di parere opposto è Andreas Kluth, che scrive di diplomazia e geopolitica su Bloomberg: «Come gesto, la stretta di mano è un fenomeno recente nella storia umana. Probabilmente è nato come un modo per dimostrare intenzioni pacifiche, presentando una mano destra che non impugnava un’arma, o come simbolo dell’intenzione di formare un legame, stringendosi. Gli atleti ucraini possono essere perdonati se non trovano appropriato nessuno dei due simboli, mentre i russi bombardano e terrorizzano i loro amici e parenti ucraini nelle loro case».
La tennista Azarenka ha spesso mostrato un atteggiamento di indifferenza per la questione, rispondendo alla stampa cose come: «Ancora? Per quanto dobbiamo parlarne? I discorsi sulle strette di mano non cambiano decisamente la vita». Come sottolineato in passato da Matthew Willis, grande esperto di tennis e autore fino a poco più di un anno fa della newsletter The Racquet, il dibattito non è di facile soluzione: «Gli ucraini hanno ragione a pensare che i cugini geograficamente vicini, e quelli più lontani, dovrebbero fare di più per aiutare. E i singoli russi hanno ragione a sentirsi intrappolati nel fuoco incrociato della politica che sminuisce completamente le loro stesse azioni. Le risposte facili sono poche e lontane da raggiungere, nei sistemi complessi che contribuiscono alle guerre, o che le rendono possibili».