di Michele Masneri e Andrea Minuz («Il Foglio», 9 luglio 2018)
Siamo qua, due maschi caucasici nel pieno delle forze in una terrazza di proprietà a domandarci se in tutto questo trionfo dei populismi non ci sia anche un po’ di reazione alla lunga “crisi della mascolinità”, se insomma Trump che si misura il missile non c’entri qualcosa con Isoardi che stira, se il torso nudo di Putin in Siberia o quello di Salvini in piscina o l’intrepida nuotata di Grillo sullo Stretto non vadano al di là delle schermaglie tra popolo ed élite.Occorre quindi addentrarsi nelle oscure fantasie del “maschio populista” (lo chiameremo così), nelle sue nuove e antichissime sfumature, nelle parate del virilismo di ritorno, del machismo violento e guerresco e razzista ma anche in quello metrosexual col ciuffo, nei territori del maschio alfa e del maschio da diporto, del maschio-mammo, del bambinone, del supermaschio, ciao maschio! Il populismo come regolamento di conti tra i generi? Il populismo “grande rentrée” della virilità? Perché no. Lo diceva pure Steve Bannon, guru delle destre mondiali in gita da noi sotto le elezioni: «Sono affascinato da Mussolini, era così virile». E a conferma, il bagno di folla, folla soprattutto muliebre, di Salvini, a Milano centro, qualche giorno fa e le urla delle sciùre: «Ma come sei bello, come sei bello!».
Eros e Priapo
MM Ma c’è già tutto in Gadda, naturalmente. Fosse vivo oggi, l’Ingegnere dovrebbe andare ogni sera in tv a spiegare l’Italia dalla Gruber.
AM Sì però le femministe se lo mangerebbero vivo, ché era un misogino bestiale, improponibile in tempi di #metoo.
MM Cosa vuoi. Era un timido signore padano, nato nel 1893, con un celebre papà terribile (per non dire della mamma). Però il suo assurdo e meraviglioso saggio-romanzo-invettiva Eros e Priapo uscito nel ’67 sembra un libro su Trump e Salvini, con tutto quel «credere che l’esser cafoni e beceri e villanzoni sia sintomo di virilità», come spiega il Maestro.
AM Eros e Priapo miglior libro di sempre per capire il fascismo. Scritto, com’è ovvio, dal meno antifascista di tutti. Gadda trova subito la chiave: «Una libido teatrale ha condotto l’Italia alla catastrofe»; l’Eros che spadroneggia sul Logos; e poi i nomi del Duce: «Gran Correggione del Nulla», «Culone in cavallo», «Bugiardone». Una meraviglia. Gadda formidabile per leggere la lunga crisi della mascolinità e della cultura di massa femminilizzata che dai e dai sfocia nell’hate-speech degli hungry-white-man al comando e così, con la scusa della vendetta contro le élite, si rinnova il primato del maschio, della mazza, della nazione. Tanta voglia di supermacho man, aggressivo, guerresco, torsuto; maschio bambinone col giubbotto Top-Gun o la felpa; maschio col missile in giardino o la ruspa in garage.
MM È la rivincita di Abercrombie & Fitch su American Apparel. Il ritorno della canotta identitaria.
AM Come la canotta di Bossi, che spianò la strada al rutto libero. Ritorno della canotta più che del fascismo, ché il fascismo è eterno finché dura. I fenomeni sono sempre nuovi anche quando sembrano antichissimi. Ritorno del machismo, del “cafone principe”, del “maschio-maschione-vitellone” che certo del fascismo era un pilastro, ma qui è un’altra storia, anche perché si spara i selfie e le dirette Facebook in nome della democrazia diretta e della trasparenza, non arringa la “vulva-massa” gaddiana, la massa non c’è più signora mia, ora c’è la “pancia del Paese”.
MM Siamo saliti un po’. Da genitale a pancia. Però pancia piatta. È addominale scolpito in palestra. Il populismo nell’epoca di Instagram. Però poi siamo sempre lì: «Una netta retrogressione da quel notevole punto di sviluppo a cui la umanità era giunta verso la fine dell’epoca positivistica verso una fase involutiva, bugiarda, nata da imparaticci, da frasi fatte». Così si apre il capitolo II di Eros e Priapo (nella nuova edizione Adelphi). C’è tutto: «Privi spesso d’ogni disciplina e d’ogni preparazione specifica, non essendo né marinai né ingegneri, né agricoltori né giuristi, né commercianti né medici, disadorni financo del misero addobbo d’un diplomuccio di scuola media, essi tentavano (…) di scavalcare nella gerarchia ma non nell’impegno e nella fatica (…) le persone preparate aventi sulle spalle anni di lavoro e di sperimentato mestiere». Pazzesco no? Pare una specie di grande ricreazione in cui questi maschi alfa o beta scorrazzano dopo governi seri – magari non perfetti o divertenti, con tanti difetti – e si sentono un po’ liberi di fare come gli pare. Il populismo è dunque una questione di eros, non di logos: ragazzacci (tutti maschi, il populismo non vuole la femmina, non ci sono leader populiste donne) nell’ora libera che fanno un po’ di danni e di okkupazione.
AM Lo dice pure Salvini: prima gli italiani, poi le italiane. Dalla stanza dei bottoni alla locker room, la politica come grande spogliatoio, gara di rutti. Tutti maschi. Tutta una grandiosa virilità scenografica da terza media, ultimo banco; teppistelli in gita scolastica sfuggita ai professori (sfuggiti alle élite); i cori di Salvini sui napoletani, le battute sui Rom, un rischio di guerra nucleare giocato sul filo di dialoghi da film di Pierino; Kim Jong-Un che dice «’a vecchio» a Trump, lui che risponde «non gli direi mai “basso e ciccione”». Siamo dentro un nuovo Bagaglino globale.
MM E poi il vecchio refrain, dì qualcosa di populista: «’A frocii!», che mi sembra il sottinteso di tutta questa mascolinità esibita e molto fragile, con tutte le regioni e le città un po’ meno sviluppate che tolgono i patrocini ai Gay pride senza capire i ritorni anche di indotto. Bellissimo è stato quest’anno quello di Pompei. Ci sarei tanto voluto andare, ma poi sono andato a Capocotta. C’è andato però il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Vincenzo Spadafora. Bravo. C’è andata la mia idola Monica Cirinnà col marito sindaco di Fco, Esterino Montino. Invece Scilipoti ha detto che la Madonna di Pompei s’è molto offesa e adesso andrà riparato il danno. Forse serviranno nuovi riti purificatori.
AM Tipo Salvini che nuota nella sacra piscina. Ne parlava anche un lungo pezzo riflessivo su Repubblica. La riedizione della vecchia nuotata machoautoritaria con la sua lunga e virilissima tradizione. Però Putin si scaraventa ignudo nel lago ghiacciato, Salvini va a bomba nell’acqua cheta; il corpo del capo è un po’ loffio, il tuffo insomma… A bigger splash.
MM Tecnicamente sarebbe smaller splash perché è una nuotata domestica, da giardino, mentre si era abituati a imprese più eroiche. Appunto Mussolini che falca a stile libero l’Adriatico, Putin che nata nel fiume congelato, con salmone esibito, Grillo che si fa lo Stretto di Messina, in assenza di più comodi ponti. Salvini mette insieme Cheever e Gianluca Vacchi e nuota in una bella piscina piastrellata, magari d’acqua salata senza cloro: che rovina la pelle.
AM Però confiscata alla mafia. Quindi Vacchi più Cheever più Roberto Saviano. «Ogni settimana farò visita a un bene confiscato alla mafia», dice Salvini. La maschia impresa incontra l’impegno civile, il Rayon ecosostenibile, una virilità omeopatica, Dux no vax.
MM La fai facile, tu. Ma non è mica semplice costruirsi oggi un’identità da macho di successo contrapposto ai leader elitisti di massimo successo: gli Obama, i Macron, i Trudeau. Tutti molto simili, abiti e cravatte strettissime, barba fatta, lacrimazione e sensibilità.
AM Sì, pure troppa. «Obama total pussy», come disse Ralph Peters su Fox.
MM Il maschio alfa, o analfa, però, si risente. Perde le coordinate. È una cosa globale, dottò. In America c’è il rifiuto della Silicon Valley e di New York, ci si rifugia nelle capanne dello zio Tom. Ci sono anche testi propedeutici: due anni fa era uscita questa Hillbilly elegy, in italiano Elegia americana, il pianto greco dell’uomo qualunque dell’interno, schiacciato dalle élite delle due coste. È stato un successone, l’autore è un siliconvallico pentito che aveva nostalgia del paesello natio dove la nonna sparava ai ladri con una 44 Magnum. Nel bildunsgroman trumpiano, il protagonista dopo essersi faticosamente emancipato dal male di vivere del Kentucky, primo della famiglia non solo a laurearsi ma ad andare addirittura a Yale, una volta raggiunta la meta, San Francisco e un fondo di venture capital, gli stipendi “six figures” e tutti i comfort, invece di strafogarsi di caffè organic e quinoa e dimenticare il passato decide inopinatamente che questo mondo non fa per lui, e vuole tornare sui monti Appalachi nell’America profonda. Vance è “public figure”, commentatore, opinionista tv, repubblicano, è stato milite in Iraq. Ma ha sofferto chiaramente di più tra gli avocado toast e le bici a scatto fisso. «Ho vissuto per due anni in Silicon Valley», ha detto. Non si è mai più riavuto. «Non dobbiamo vivere come le élite della California, di New York o di Washington, non dobbiamo lavorare cento ore la settimana in studi legali e banche d’investimenti. Non dobbiamo socializzare ai cocktail party», scrive nel suo memoriale di pentito. Ricorda un po’ Franzen per la foga antisiliconvallica e antimoderna. La casa della nonna, la casupola di famiglia che passa di mano e che unisce i capitoli del libro, va in pezzi come quella dei Lambert delle Correzioni, e come l’America stretta tra le due coste. Però anche posti in cui tutti si salutano per strada, spirito di comunità. La parola hillbilly è la seconda volta che l’ho letta, la prima era in Fratelli d’Italia, quando Arbasino narrava la bellezza rustica di questi maschi di campagna americana «coi capelli corti e la pelle che sa di Old Spice».
AM Vabbè ma noi sulla “bellezza rustica” c’abbiamo ancora le borgate di Pasolini; lavorare cento ore la settimana non s’è mai posto il problema, e dalla città che scappiamo a fare che a malapena di metropoli ne abbiamo una o mezza, senza neanche uno Starbucks.
MM C’è Pozzetto, che mi sembra molto più significativo. Con opere “seminali” e “fondative” come Il ragazzo di campagna racconta già tutto, l’incomunicabilità, l’alienazione della Milano ancora senza boschi verticali, il ritorno al paese. E poi Celentano naturalmente. Però oggi manca un po’ un profeta tutto compreso del ritorno al villaggio. C’è frammentazione.
AM Troppi “territori” e “presìdi”, però ultimamente grande ritorno del maschio di montagna e nostalgia delle valli: Mauro Corona ubriaco da Bianca Berlinguer e Le otto montagne di Cognetti che ha vinto lo Strega e sembra un film di Salvatores scritto da Recalcati, con padri, figli, Nepal, Monte Rosa (questo nuovo maschio di montagna che torna alla barba “necessaria” dopo quella hipster-ornamentale). Poi c’è anche la decrescita felice e l’apicoltura delle Rohrwacher, il giardinaggio di Serena Dandini, le gite fuori porta con Augias e Concita…
MM Siamo un Paese destrutturato anche in questo. Manca una cultura nazionale, signora mia. Mare e monti. Destrutturato e costiero: il paragone con le coste americane del resto non regge.
AM Anche perché qui quando vincono i populisti non diciamo mica “Italia profonda” come “deep America” o “Italia rurale” come “France rurale”, diciamo “Paese reale”, come se la cultura urbana e le élite borghesi fossero una fantasia, perché la realtà amici è questa qui. Come dice Maria De Filippi: «La provincia è dentro di noi». Anche Salvini, che pure viene dall’unica metropoli d’Italia, Milano, è il prototipo del maschio populista di provincia. Pozzetto che arriva a Palazzo Chigi.
MM Tra l’altro son vicini di casa, a Milano. E lo sai che io sono fissato ma per me l’attore di Laveno è stato importantissimo nell’identità maschile italiana. Soprattutto sui gender studies: in Ricchi, ricchissimi… praticamente in mutande (1982), con una sceneggiatura forse supervisionata dalla Cgia di Mestre, Pozzetto impersona il piccolo imprenditore Alberto Del Prà, alle prese con la crisi della piccola e media impresa e col calo della nautica, e che vuole convincere la moglie Edwige Fenech a darsi a un emiro arabo in cambio di importanti commesse per yacht. Ma poi si avrà il classico ribaltamento quando l’emiro, dotato di harem tutto maschile, dichiara la sua preferenza. Con la Germania, del resto, la virilità italiana va sempre a remengo («di fronte al marco pesante m’arendo», dichiara Christian De Sica in Fratelli d’Italia, 1989, prima della Merkel e del QE). Ma già vent’anni prima, in La patata bollente, 1979, il film più politico della fase gender di Pozzetto, regia di Steno, Bernardo Mambelli è un operaio milanese di una fabbrica di vernici con la passione per il pugilato. È soprannominato “il Gandi”, è militante del Pci, e in una sera di tregenda ricovera a casa l’omosessuale Claudio (Massimo Ranieri) picchiato dai fascisti. Di lì, una serie di equivoci porteranno il Partito e la fidanzata (Edwige Fenech) a credere che il Gandi sia diventato gay; il Gandi viene spedito in Unione Sovietica. Lì gli va bene perché non c’è ancora Putin, ma quando tornerà, non solo non farà autocritica, ma troverà il suo appartamento ridecorato da Claudio. Finale con un ballo scandaloso alla Festa dell’Unità. Stesso topos anche in Culo e camicia (1981), con Leopoldo Mastelloni e Pozzetto fidanzati che ballano questo Tango delle capinere. Opera peraltro di Cesare Andrea Bixio, compositore e nipote del patriota Nino. Autore di Mamma, che sarebbe un nostro inno nazionale tanto più sensato e comprensibile dei vari «stringiamci a coorte», così poco identitari, che nessuno ha mai capito.
AM Nella versione di Claudio Villa. Pensa che meraviglia la nostra Nazionale schierata a metà campo che segue la banda col labiale: «Sento la mano tua stanca, cerca i miei riccioli d’ooooor…». Italia laboratorio politico dell’Occidente anzitutto per il suo maschio bambinone-giocherellonevitellone-lazzarone-mammone. Per questo il più grande film sul fascismo è Amarcord di Fellini, altro che quella smarmellata paragramsciana di Novecento. Amarcord come adolescenza permanente, motivo profondo di tutta l’ideologia italiana, prima che del fascismo. Bambini intrappolati dentro corpi adulti e divise in orbace. Come il tuo amato Pozzetto quando fece Da grande, la nostra versione di Big, come Salvini, come Trump. Oggi tutto un catalogo e un repertorio di bambinoni che andrebbe aggiornato.
Il bambinone senza popolo e il maschio-mammo
MM C’era la mamma di Berlusconi, e poi quella di Renzi: mamme adoranti, mamme come supporto narcisistico che sostituisce dunque il popolo. Sarà per questo che i bambinoni non riescono a essere veri leader populisti? Perché hanno sempre una mamma fondamentale. Per esempio, tutti parlano di questo papà di Renzi col cappello, il Tiziano: ma hai mai visto la mamma?
AM Biondissima. Interrogata sul figlio disse «l’ho affidato alla Madonna». Altro che Telemaco e Omero, altro che padri recalcatiani alla Leopolda, qui è tutto un problema di «teorica del modello narcissico», di «carica ipernarcissica non infrenata», come la chiama appunto Gadda.
MM Questi bambini sempre coccolati. Il contrario delle nostre mamme lombarde severe che ci facevano crollare l’autostima (e ci si rifugiava nelle nonne). Una variante del bambinone più chic è naturalmente quella del presidente francese Emmanuel Macron: che è chiaramente Lucien de Rubempré delle Illusioni perdute, il giovane di provincia che impalma l’anziana nobildonna; e anche un po’ Bel Ami. E il fatto che ami l’anziana naturalmente conferma che trattasi di élite e non di popolo o populismo: e dunque, per non saper né leggere né scrivere: frocio. All’opposto del bambinone poi c’è un’altra categoria di maschio contemporaneo. Il “mammo” o “babbo materno”. E qui ecco Di Battista, il Dibba, che parte con lo zainetto, e mentre fa le sue intemerate dalla California e dice le parolacce e i vaffa (teddy boy!) si placa solo al richiamo della compagna («che, sto a sveglià er bambino?»). Il “mammo” che scrive su Facebook, «madri si nasce, padri si diventa», e poi la retorica del quality time col bimbo in grembo. La paternity leave. Qui l’Ingegnere chissà che direbbe, «santa e sadica megera»: il Sudamerica del Dibba come la Brianza-Parapagal. Qui le ville brianzole, con la Casati-Stampa, che riporta a uno dei delitti in cui più oscuro vien fuori l’eros e il thanatos italiano, con problemucci anche di identità e vedute: col marchese di Soncino che trucida la moglie e il di lei amante Massimo Minorenti perché osano innamorarsi, e non solo (e non più) accoppiarsi di fronte a lui e in favore di camera sulla spiaggia. Poi si spara anche lui, il marchese, nell’appartamento di via Rossini a Roma, pieno di anatre e starne cacciate nell’isola privata di Zannone. «Cacciatore in utroque», sempre Gadda. Ma il mammo ha preso piede nel Paese anche prima del populismo: sempre ai Parioli, nei Mostri, Tognazzi passa molto quality time con un bambino tra pasticcerie e ingorghi, con finali imprevisti. Invece in via Merulana, luogo sudamericanogaddiano, l’ex ministro Franceschini, che a un certo punto s’è fatto crescere la barba e la vocazione letteraria, scrive un sacco di romanzi (Nelle vene quell’acqua d’argento e La follia improvvisa di Ignazio Rando sono alcuni titoli), ed era spesso avvistato con la prole, a far la spesa, anche nel pieno delle sue facoltà di ministro. Quality time, again. Come il premier Conte che porta a scuola le bambine. Ma qui siamo in un altro capitolo.
Il premier metrosexual
MM C’è Conte col suo ciuffo. Forse tinto, forse col naso rifatto, come dicono i perfidi. Chissà: però quanta acqua, e quanto fard è passato sotto i ponti dal 1994 quando si ebbe il primo premier narcisista.
AM Narcisista ma non ancora populista, più gallismo che virilismo, Cav. ultimo corteggiatore dell’Italia del boom. Solo cene eleganti.
MM Era il 1994 e non solo Berlusconi conquistava Palazzo Chigi: succedevano altre cose fondamentali. Mark Simpson cambiava il mondo inventando in un articolo sull’Independent il concetto di metrosexual, cioè l’uomo ipernarciso e fighetto, incoronando poi David Beckham a icona globale di questa mutazione genetica. Simpson, che scrive su una serie infinita di testate (dal Guardian all’Independent a Vogue), e che GQ Russia ha inserito nelle «dieci cose che hanno cambiato la vita degli uomini», insieme a «Freud, Schwarzenegger e la linea Biotherm Homme», mi disse in un’intervista che Obama era il primo presidente che era contemporaneamente il presidente e la sua first lady. Gli Stati Uniti venivano dagli anni Novanta, dalla doppia presidenza Bush che era stata l’affermazione dell’“hummersexual” (dall’Hummer, mascolinità da ritorno alle origini).
AM Venivano anche da Monica Lewinsky e Nina Burleigh che offrì un pompino a Bill Clinton sull’Air Force One, per «ringraziarlo di aver difeso l’aborto», pensa te. Tempi lontanissimi.
MM Con Obama, Bush e l’Hummer erano scomparsi dai radar, dopo di loro era scoppiata la menaissance, un rinascimento maschile, l’America si ritrovava un presidente ben vestito, poliglotta, che «difende elegantemente il mondo libero dopo una seduta di ginnastica nella sua palestra personale», come mi disse sempre Simpson. «Un presidente che ha vinto le primarie anche perché molto più carino della sua sfidante femmina, per quanto molto più autorevole. Michelle Obama è anche lei molto attraente, certo, ma Obama non ne ha bisogno, lui è anche la sua first lady». Adesso, dopo il presidente-presidentessa, c’è un ritorno al presidente-presidente; con una first lady marginale, messa in ombra, che non parla quasi mai e le è affidato un ruolo da valletta muta (scrive misteriose frasi, quasi degli haiku, su Instagram, tipo Isoardi. «Fammi abbracciare una donna che stira cantando». Canti dell’Olgiata style).
AM Oppure, peggio: «Parla con il suo stile», come scrivono i giornali quando commentano il “look” di Brigitte Macron in visita ufficiale. La first lady marginale scompare dietro abiti di cui rincorriamo i significati: «Melania: un vestito bianco contro il marito» (ma che vor di’?) e poi il casino scoppiato per il parka con la scritta «I really don’t care, do U?». Certo anche Conte è un po’ la nostra first lady, anche lui ci parla in silenzio con le sue sfavillanti cravattone fucsia.
MM Nei regimi ormai di riferimento la first lady non esiste proprio, qualcuno ha mai visto la moglie di Orbán? O quella di Putin, che è addirittura indefinita (divorziata? morta? ce n’è una nuova in carica? Mistero). La donna torna a essere quella «compagna cara e utile a percorrere la strada consueta, non a inoltrarci nel buio. Conservatrice e accumulatrice, essa ci è di conforto e di sprone a servire la causa santa della pagnotta», sempre Gadda.
AM Ci sono poi le leader populiste femmine, ma non gliela fanno tanto. Marine Le Pen gioca fare la “madre della nazione”, una specie di Marianne-Grizzly; Giorgia Meloni corre incinta per le amministrative perché «il simbolo di Roma non è forse una lupa che allatta due bambini?», dice pure «scìvis romanus sum», tira fuori Romolo, Remo e la famiglia tradizionale. Poi Raggi, vabbè. Nessuna di loro entra in empatia diretta, ipnotica, profonda con le oscure ragioni del popolo. Ha da torna’ Evita Perón. A Roma ci vorrebbe lei, altro che Raggi. Don’t cry for me Anagnina.
MM Eh. Marine Le Pen. Sarah Palin. Quella nella soap opera col papà nel castello. Quell’altra che inizia come Miss Alaska, amante della carabina e dell’hamburger di renna. Due fantastiche coatte: però considerate impresentabili, all’epoca: e l’epoca era l’altro ieri. Oggi forse già sarebbero due leader autorevolissime. È questione di attimi, dottò. Come quei prodotti giusti ma appena appena in anticipo sui tempi, tipo il Beta col Vhs. Oggi invece come femmina populista italiana c’è, appunto, solo Raggi. Good timing? Ella opera peraltro in una foresta di simboli: fallici. Basta andare in giro e trovi, oltre ai fasci di combattimento ancora su tombini, pali della luce, ponti. Non ti dico al Foro Italico, tra piselloni e coscioni e culoni marmorei proprio accanto a quella magnifica Palestra del Duce. Qui però la città non solo non erge nuovi cippi e monumenti e obelischi, ma anzi simmetricamente e sistematicamente sprofonda, da convessa e turgida collassa, si craterizza, al posto di erezioni ecco continue cavità grandi e piccole, buchi neri continui. Te devo spiega’ la simbologia?
AM Lo dice sempre l’Ingegnere: «La politica non è fatta per la vagina», ma sicuramente scherzava. Sta di fatto che vuoi o non vuoi Salvini e Di Maio hanno instaurato «un legame sessuale e priapesco» se non con le masse quantomeno con le massaie. Vedi le sciùre per Salvini l’altro giorno a Milano. Vedi Orietta Berti in estasi davanti alla «bellissima abbronzatura di Di Maio che sembra quasi un mulatto» (disse proprio così).
MM In questo caso però «mulatto» è in accezione positiva, nella temperie anti vu cumprà. Strano no? E però questo mi conferma che tutto il backlash (possiamo osare: blacklash?) del bianco italiano contro il nero invasore nasconda sotto sotto una micidiale e giustificata paura. Gratti un po’ e sotto lo ius soli ci trovi una bella invidia penis. Se vai a Brescia, terra di tondino e integrazione, vedi in giro questi belloni di seconda generazione figli dell’amore tra una bresciana e un africano. E le capisci benissimo: scusa, se tu fossi una femmina padana, preferiresti andare con un autoctono pieno di psicanalisi, iPhone a rate, fondotinta, oppure con un aitante, ambizioso africano? È chiaro che la sostituzione etnica è non solo necessaria, ma anche possibile e appetibile. La sostituzione etnica è sexy! Anche perché il maschio caucasico italiano ormai acchittato, con borsello, spende tutto in bracciali e cibo senza glutine, vuole essere sé stesso, vuole esprimersi, insomma ha tutti i problemi gay ma senza i pregi.
AM Ma gli italiani sono metrosexual da sempre, da noi non serviva neanche la parola. Ti ricordi quando Cecchi Paone disse «nella nazionale di Prandelli ci sono sicuramente due omosessuali, un bisessuale e tre metrosexual», tutti presi dal panico; e questi chi sono? che vor di’? sarà grave?
MM Sarà l’invidia vaginae. O l’invidia sociale. Comunque, sempre un popolo di rosiconi. Ma restando in ambito ginecologico, a me suona sempre sospetta anche tutta l’isteria sull’utero in affitto: è una mia impressione o questi sono ossessionati, più che dal concetto di maternità surrogata, proprio dall’idea dell’utero in affitto? Viene meno la tradizionale sicurezza, più che sulla figa, sul mattone. Il combinato disposto di ginecologia + pigione distrugge l’autostima del maschio italiano. Evocando cedolare secca e precarietà. Sfratto, défaillance. Causa ansia, dunque impotenza (che poi l’italiano è l’unica lingua in cui si parla proprio dell’organo, dell’utero: non c’è mica in nessun’altra lingua, quando si parla di surrogacy. Un popolo di ginecologi e immobiliaristi). Sempre Gadda: «Il dogma fallico ossia il fallo dogmatico pervenne a depositare nel loro utero il germe della certezza canonica». Equo canone? Casa di proprietà e utero in affitto? Grande è la confusione sotto il cielo.
AM Mi pare un terreno spinoso. Peraltro, qui siamo due maschi che da quattro pagine stanno parlando di maschi, insomma come la mettiamo con Michela Murgia che passa in rassegna i giornali su Twitter?
MM Tu sei pure etero, son cazzi tuoi.