Il ricatto dell’instant reaction

di Guia Soncini (linkiesta.it, 14 dicembre 2021)

Insomma c’è questo problema dell’immediatezza del commento. Instant reaction, direbbero quelli che non si sono mai ripresi dal quel sei meno meno in Inglese alle medie. Bisogna esserci. Bisogna reagire. Bisogna commentare, ma subito. Se ti prendi un giorno per pensarci, non sei nelle tendenze. Se ci rifletti, sei così superato che rischi la cosa più terribile che possa accaderti sull’Internet: che ti dicano «boomer» (per fortuna tra dieci anni avrò altro da fare che rileggere quest’articolo: sai che fatica farei a ricordarmi quei tre quarti d’ora in cui il presente s’era fissato con «boomer»). Il processo più dentro lo spirito del tempo di cui non avete mai sentito parlare è quello a Jussie Smollett. Smollett è un attore, potreste averlo visto in Empire, ed è un omosessuale di pelle nera.

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Giovedì una giuria l’ha giudicato colpevole (la pena non è ancora stata stabilita) d’essersi inventato un’aggressione razziale e omofobica. Nel 2019 denunciò d’essere stato aggredito da due tizi che, dopo averlo insultato, gli avevano versato addosso della candeggina e avevano tentato d’impiccarlo. I due tizi erano stati pagati da lui per farlo, e per renderlo la vittima du jour, e per fargli avere attenzione, e forse un contratto migliore con la produzione televisiva. Se pensate che l’omofobia e il razzismo non possano essere usati come strumenti di marketing, sono molto invidiosa: dovete aver dormito assai profondamente, negli ultimi anni. Giovedì, Twitter era pieno di istantanee di commenti che sarebbe stato meglio non formulare. Commenti del 2019. Non mancava nessuno, da Joe Biden a Alexandria Ocasio-Cortez. Tutti indignati della giusta indignazione del giorno. Era facile prenderli per il culo, col senno di poi. Era facile dire che Kamala Harris – «è stato un linciaggio dei giorni nostri, dobbiamo affrontare quest’odio» – o Bernie Sanders – «un esempio della crescente ostilità verso le minoranze» – non avrebbero dovuto scattare al perfettissimo fischio di Pavlov smollettiano, quello che univa omofobia e razzismo. Ma, forse, il punto stavolta non è quanto sia commercializzabile un reato.

Nel 2013 l’ex fidanzata del cantante Massimo Di Cataldo pubblica su Facebook delle foto di macchie di sangue, sostenendo che lui l’ha picchiata al punto da farla abortire. Stimate opinioniste si gettano sullo scandalo con tutto il carico della loro indignazione. All’epoca tenevo una rubrica su una rivista femminile. Poiché conosco i miei polli di Pavlov, telefonai alla direttrice dicendole di non fare l’editoriale della settimana sul cattivo Di Cataldo e la sua vittima: so che stai per farlo, e so anche che poi verrà fuori che è una stronzata e ci farai una figuraccia. Ma tu come fai a saperlo, chiese la fortunata. Non ricordo cosa risposi: forse «perché so leggere», forse «perché so ragionare invece che scattare ai fischi di Pavlov», forse «perché ho visto molti melodrammi con Gabriel Garko e ne conosco la trama». La fortunata non fece l’editoriale, e il tribunale poi stabilì che la tizia s’era inventata tutto. Se avessi avuto il numero di Kamala Harris, le avrei detto di non commentare Smollett.

Ci vorrebbe una badante delle password, perché a volte tutto quel che ti serve è qualcuno che custodisca senza concedertici accesso la possibilità della reazione immediata. È per questo che ai politici andrebbero tolti i social: perché tutto ciò su cui non hai ragionato è inevitabilmente una stronzata, e i social non funzionano coi tempi dei ragionamenti, funzionano con le tendenze del momento e quindi con le reazioni istintive. «Ma io mi fido del mio istinto», obietterebbero loro, ed è per questa scemenza che vanno loro tolte le password: per il loro bene. «Vabbè, la storia di Di Cataldo o quella di Smollett non saranno state vere, ma la condanna della violenza sulle donne o sugli omosessuali o sulle minoranze etniche va sempre bene», sosterrebbero loro: certo, ma allora tanto vale che ti candidi a Miss Italia dicendo di volere la pace nel mondo. Il guaio è che nessuno è brillante ventiquattr’ore al giorno, informato ventiquattr’ore al giorno, col pieno controllo di sé ventiquattr’ore al giorno.

L’anno scorso ho intervistato Niccolò Ammaniti, che mi ha fatto notare l’insensatezza del cacciare i concorrenti dei reality che si comportano male: certo che si comportano prima o poi male, come chiunque venga costantemente mostrato. Prima o poi si comporta male. Finisce, diceva Ammaniti che ha più dono della sintesi di me, che per non farsi espellere «sono diventati dei naselli congelati». Ma, se il concorrente medio del reality medio sa di dover esercitare un controllo sovrumano su di sé per non bestemmiare o non dire che a quella lì le farebbe questo e quest’altro, è mai possibile che la stessa continenza non la possa avere un politico, che, diversamente dal concorrente di reality, è in onda solo quando lo decide lui? Possibile che non sappiano astenersi dal commentare un reato prima di avere tutte le informazioni del caso, un fatto che non è ancora chiaro prima di saperne di più, uno scandale du jour prima che la giornata sia passata? Possibile che preferiscano il rischio, nel medio termine, della figura da scemi, di quello, nel breve termine, di perdersi il trending topic? Possibile che, se non si muore di nasellismo, si debba morire di calendismo?

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