di Vittorio Giacopini («Il Venerdì», suppl. a «la Repubblica», 15 settembre 2017)
Verso la fine, quando ormai era ai ferri corti un po’ con tutti, preferiva andare diritto al bersaglio, provocare. Magari non era nella sua natura, ma doveva farlo. A neanche sessant’anni, con un paio di capolavori all’attivo, e ancora molto da dire, e da studiare, Christopher Lasch stava diventando la bestia nera di un sacco di gente.Femministe, studiosi e politici liberal, repubblicani libertari, figli dei fiori ormai decisamente attempati, e comunque garantiti, ben sistemati, scrittori e attivisti “neri”, acrobati del Nasdaq e mangiatori di fuoco di Wall Street, svariate “minoranze”: come la metti la metti, ce l’avevano su con lui per varie ragioni. D’altronde, era anche una questione personale, cioè di vita o di morte: il cancro, che credeva di aver sconfitto, era tornato, e non si voleva curare. Dopo aver smontato la “cultura del narcisismo” e i guasti della mentalità turistico-terapeutica tipicamente americana, ossia globale, non voleva cascarci pure lui, come un farlocco. «Ci sono destini peggiori della morte» aveva scritto in quegli anni quel genio di Kurt Vonnegut, e Lasch era più che d’accordo. Al medico che lo seguiva scriverà un’ultima lettera al vetriolo, quasi un testamento: «disprezzo a tal punto quest’attaccamento alla vita, alla pura sopravvivenza, che sembra così profondamente incistato nell’anima americana…». Era un tema molto suo, caratteristico. In La cultura del narcisismo (il suo capolavoro, uno dei libri più geniali della critica sociale del Novecento) aveva messo alle strette esattamente questa tendenza ottusa e autocommiseratoria alla pura self-preservation, cioè al vivere inseguendo bisogni e pulsioni da poco, stimoli fiacchi. Sia chiaro: non era un moralista, ma era sempre appassionato, e poi era lucido. Ai “narcisi” postmoderni non rimproverava chissà quale ipertrofia dell’ego: piuttosto il contrario, perché il nodo per lui non era tanto l’individualismo ma proprio l’insussistenza ridicola di questi io garruli e autocompiaciuti, drammaticamente senza personalità, e senza carattere. Una nazione e una cultura di minimal self, di borghesi davvero piccoli-piccoli, e di vittimisti: così gli era apparsa l’America, negli anni Settanta. Neanche venti anni dopo – cioè dopo Reagan e la New Age – le cose avevano preso una piega peggiore, che temeva vincente, irrimediabile. Nei primi anni Novanta – adesso che era malato, ma tutt’altro che domo – sentiva di dover tornare a occuparsi di politica, direttamente (anche per questo rifiutava la chemioterapia: non aveva tempo di ripiegarsi su sé stesso, di rimbambirsi). Potevano accusarlo di essere un reazionario, ma lui se ne infischiava, aveva fretta. Così, alla fine, nell’America di Clinton (muore nel ’94, è l’anno di Pulp Fiction e di Forrest Gump tanto per capirsi) il rinomato sociologo che aveva analizzato le avventure e le disavventure del “nuovo radicalismo” americano, e i temi della famiglia, e del narcisismo, per quanto malandato ritorna in prima linea, scende in trincea. La rivolta delle élite, il suo ultimo j’accuse (ripubblicato da Neri Pozza nella traduzione di Carlo Oliva), è un libro durissimo, e la sua sola profezia (tutta sbagliata). Alle critiche, alle polemiche e agli ostracismi d’altronde era assuefatto. Quando negli anni Settanta (in Rifugio in un mondo senza cuore), alla faccia di Donald Laing e di tutta la nuova psichiatria, aveva difeso l’istituzione e (orrore!) i valori della famiglia tradizionale, le femministe l’avevano fatto a pezzi, e ne aveva riso. Figurarsi adesso, che stava morendo. Molto in sintesi: l’America (e la democrazia) sono state tradite dalle élite, e dalla sinistra; e il libro insiste su questo, con gelida furia. Lasch – come capita alle persone miti – diventa implacabile. La vecchia lamentala conservatrice sulla “rivolta delle masse” viene rivoltata come un calzino, e attualizzata. Il guaio, oggi, sono le élite, chi ci governa, e la “cultura” che le sostiene e le orienta, un’accozzaglia patetica di sentimentalismo beota, ossessionato dall’autostima, e di vittimismo. «Le nuove élite sono in rivolta contro la middle America… quanti ambiscono ad entrare nella nuova aristocrazia intellettuale tendono ad ammassarsi sulle due coste, voltando le spalle al cuore del Paese… il multiculturalismo, d’altronde, si adatta loro alla perfezione, contribuendo a definire la piacevole immagine di una sorta di bazar globale in cui cucina esotica, modi esotici di vestire, musica esotica ed esotici costumi tribali possono venire assaporati indiscriminatamente, senza problemi e senza impegno… La loro è essenzialmente una visione turistica del mondo». Era indubbiamente sarcastico, ed esasperato. Nello scollamento tra élite e popolo Lasch vedeva uno snodo epocale e un micidiale agente di distruzione, e di irrilevanza. La sua non era una critica “politica-politica” ma di portata più ampia, sconsolatissima. Il guasto, temeva, riguarda sia le scelte governative sia la vita quotidiana, sia la vita activa sia la vita della mente, e non c’era scampo. Queste élite falsamente cosmopolite e turiste (per caso) in patria, queste classi dirigenti fissate con l’esotico, i crucci dell’autostima, il politicamente corretto, e naturalmente il denaro, il Capitale, hanno corrotto ogni cosa: il contagio è in atto. Il male dilaga sin nelle «vene dell’America» e, in tempi di globalizzazione, in tutto il mondo. È un gioco di specchi: le élite si barricano nei loro «consumi vistosi» e l’America si trasforma, anzi svanisce. Nel suo Paese, Lasch vede ormai soltanto una «parodia di comunità» e nei dogmi in rovina della sinistra una rovina. Il liberalismo americano, borbotta, è «ossessionato dai diritti delle donne e delle minoranze, dai diritti dei gay e dal diritto all’aborto, dal bisogno di cancellare i modi di dire offensivi». Il politicamente corretto, insiste, è diventato un’esperienza dell’alterità, ma «a senso unico»: i «figli del privilegio» sono invitati a studiare le culture altre ma «i neri, gli ispanici e le altre minoranze sono dispensati dall’esperienza dell’alterità nelle opere dei maschi bianchi occidentali». Il risultato finale è un paradosso: «un’insidiosa duplicità di criteri, travestita da tolleranza, finisce con il negare a quelle minoranze il frutto della vittoria che hanno raggiunto a prezzo di tante lotte, cioè l’accesso alla cultura mondiale». Che fosse una profezia pare scontato, che nel vaticinio ci fosse un possibile rimedio è da vedere. A questa deriva, Lasch nei suoi ultimi anni opponeva un toccasana che la Storia ha mostrato essere quasi inservibile, comunque dubbio. Per Lasch la cura era un vero «populismo repubblicano». Forse però il “popolo” è sparito o ha introiettato quei temi tipici delle élite, stemperandoli nel rancore, o in un macero di invidia e emulazione. Indovina indovinello: cosa direbbe oggi Lasch di un Donald Trump e della sua ghenga? Eppure anche the Donald non fa che continuare a ripeterlo, allo sfinimento: io sono con la middle America, contro le élite. A volte gli anni passano e passano invano. La critica ancora libertaria e radicale di Christopher Lasch si è mutata nel ringhio rancido e un po’ isterico di Breitbart News. Il populismo ha vinto, ma è un vero affare?