(ilpost.it, 12 ottobre 2023)
«Ma che bello, scrivi!», capita che qualcuno mi dica, e ogni singola volta una gelida scossa mi corre lungo la schiena. Eppure è bello, in effetti: alleno il cervello investigando con le parole il rebus del mondo, mi pagano per qualcosa che avrei fatto anche gratis, ho spesso intorno persone più intelligenti della media; anche più problematiche, a dire il vero, ma in ogni caso più colorite. E ho anche la fantastica scusa di passare parecchio tempo a leggere le parole di persone ancora più intelligenti e problematiche e colorite, a studiare i loro quadri, i loro film, le loro canzoni.
Ma c’è sempre quella voce dentro di me che ha voglia di mettere le mani avanti, confessare che non è proprio come uno si immagina… non è come io per primo immaginavo da piccolo, quando battevo le dita sulla macchina da scrivere di mia madre e sognavo un giorno di finire i miei romanzi in quel porticciolo sul dito della Corsica. Perché dunque, ogni volta che qualcuno mostra quello sguardo emozionato, mi sento come in prigione? Una delle più tortuose ma affilate risposte a questa domanda l’ho avuta di recente, quando ho scoperto che a fine gennaio del 1978 i cittadini della Corea del Sud furono raggiunti da una singolare notizia: Choi Eun-hee, durante un viaggio di lavoro a Hong Kong, era scomparsa. Choi Eun-hee era stata la protagonista di buona parte dei più seguiti e premiati film coreani degli anni Cinquanta e Sessanta. Era un po’ come se a noi italiani, una mattina, avessero detto che era scomparsa Sophia Loren.
È una storia raccontata scrupolosamente in un libro uscito anche in Italia nel 2015 per Bompiani e passato per lo più – inspiegabilmente – inosservato, Una produzione Kim Jong-il, di Paul Fischer, oltre che nel documentario The Lovers and the Despot di Robert Cannan e Ross Adam uscito nel 2016. Choi era giunta alla rarefatta dimensione della semi-dea insieme al suo ex marito, Shin Sang-ok. Shin era il proprietario dell’unica casa di produzione sudcoreana degli anni Sessanta, impiegava più di trecento persone, e da regista girava film di ogni genere: di azione, romantici, tributi neorealisti a Rossellini, storici. L’unico fil rouge del suo cinema era lei, Choi. Shin Sang-ok e Choi Eun-hee non erano i più noti membri del cinema sudcoreano, erano il cinema sudcoreano.
Le fiabe d’altronde, come sappiamo, non sono fatte per durare in eterno, e anche quella di Shin e Choi si frantumò. Peraltro – a differenza dell’eccezionalità della loro storia d’amore – contro le più trite banalità: debiti, cause, tradimenti. Persa la moglie in un attentato da parte dei nordcoreani, il presidente liberale e filo occidentale Park Chung-hee, un tempo grande protettore di Shin, era diventato sempre più paranoico. Negli anni Settanta aveva finito per trasformare anche la Corea del Sud in un guazzabuglio di burocrazia, leggi contraddittorie e censure che rendevano impossibile lavorare liberamente.
Per districarsi in quel roveto Shin si era spesso messo nei guai, finendo pure un paio di volte dietro le sbarre e passando dai trecento impiegati di pochi anni prima ad appena una decina, fino al definitivo ritiro del permesso di girare film in Corea del Sud. Nessuna legge o cavillo aveva però maggiore colpa delle pessime capacità amministrative di Shin. E per completare il quadro dei luoghi comuni, Shin aveva finito per fare due figli con un’altra mediocre attricetta molto più giovane. Quando Choi scomparve, Shin cercava disperatamente qualcuno che volesse girare un suo film e gli desse un visto di lavoro. Era l’unico che non si beveva la storia della scomparsa di Choi, sospettava di una collaboratrice del suo ufficio a Hong Kong che aveva legami con la Corea del Nord. A essere sospettato della scomparsa della ex moglie fu invece proprio lui, e interrogato per ore sia a Hong Kong sia a Seul.
Sei mesi dopo, nel luglio del 1978, scomparve pure lui. Sarebbero dovuti passare sei anni per vederli riapparire, presentando un loro film al Festival internazionale del cinema di Karlovy Vary, nell’allora Cecoslovacchia, per conto della Corea del Nord, e un altro anno – seduti in una stanza dell’ambasciata americana di Vienna – per sentire la prima stringata versione della storia per cui sarebbero stati intervistati fino alla fine dei loro giorni: la storia cioè del loro rapimento da parte di Kim Jong-il, figlio del Grande Leader Kim Il-sung e ormai effettivo amministratore della nazione.
Choi e Shin erano stati catturati nello stesso luogo e in modi simili. Attratti con una scusa a Repulse Bay, nella costa meridionale dell’isola di Hong Kong, erano stati agguantati da persone con indosso delle lunghe parrucche, trascinati prima su un barchino e poi su una nave, fino in Corea del Nord. Solo a Choi però era stato riservato l’onore di essere accolta da Kim Jong-il in persona. Erano poi tutti e due stati portati in lussuose ville con ogni tipo di attenzione, fino alla marca di sapone che preferivano. Chissà, forse non avrebbero dovuto attendere quasi cinque anni per ritrovarsi, se Shin non avesse tentato per due volte di fuggire. I tentativi erano stati talmente goffi – prima con una macchina, senza sapere bene dove andare, poi nascondendosi in una nicchia della sua casa – che era stato subito beccato. La prima volta, con sorpresa dei suoi stessi secondini, se l’era cavata con appena qualche mese di carcere di isolamento, la seconda era finito nella Prigione n. 6, un kyohwaso, o “centro di illuminazione”.
Ecco la descrizione delle giornate nella Prigione n. 6, per voce del figlio di un suo ospite: «La tortura consisteva proprio nell’immobilità. Vedevi i pidocchi che si muovevano, ma non ti potevi azzardare a cacciarli… Mio padre ha ancora i segni. C’era solo un momento, nella giornata, in cui i prigionieri potevano muoversi. Durava dieci minuti. Ma i prigionieri, con le gambe spesso gonfie per la circolazione bloccata, quasi non riuscivano ad alzarsi». Shin passò alla Prigione n. 6 tre anni e mezzo. Tre anni e mezzo seduto immobile a gambe incrociate per diciassette ore al giorno. Ripetiamo perché resti bene in mente, e perché qui sta il senso di queste parole: tre anni e mezzo, diciassette ore al giorno, immobile, a gambe incrociate.
Dai kyohwaso di solito non si usciva. Shin d’altronde dovette aver convinto il suo referente governativo talmente bene di avere capito i propri errori e la grandezza della Repubblica Popolare Democratica di Corea che finì per essere graziato, rivestito di tutto punto, portato a una festa di Kim Jong-il e riunito finalmente con la sua sbigottita ex moglie, che – da saggia donna quale era – in quegli anni si era limitata a starsene buona nelle sue ville, far finta di assorbire le lezioni sulle posticce leggende della famiglia Kim e accompagnare di tanto in tanto Jong-il a una delle sue bizzarre feste. Fu solo a questo punto che i due ex coniugi scoprirono il vero scopo del loro rocambolesco rapimento, della loro agghiacciante solitudine, della presumibile pena dei loro figli e parenti, delle atroci sofferenze: ridare vita al cinema nordcoreano. (Sì, va bene se qui scappa da ridere).
Non sarebbe assurdo azzardare che Kim Jong-il fosse il più ossessivo amante del cinema del pianeta. Attraverso le ambasciate sparse per il mondo aveva messo su un’intera operazione governativa, l’Operazione Recupero n. 100, con l’unico scopo di reperire copie in 35 mm di tutti i film su cui riusciva a mettere le mani, e che poi – dopo esserseli goduti ovviamente da solo, non essendo in linea con i codici della propaganda nordcoreana – inseriva nel più organizzato e curato archivio cinematografico che Shin e Choi avevano e avrebbero mai visto. Va da sé che tutta questa cultura cinematografica aveva finito per mostrare a Jong-il le immense ingenuità e inerzie in cui il cinema della Corea del Nord, per ignoranza o regolamenti, era impantanato.
Ce lo immaginiamo dunque Jong-il, lì nella sua privata sala di proiezione, dopo aver visto – mettiamo – Lo squalo, incazzato nero, a domandarsi come mai ai suoi non riesce di fare niente di anche lontanamente simile. «A Seul almeno hanno gente come Shin Sang-ok», avrà forse pensato. «Lui almeno ci provava, The Houseguest and My Mother era un gioiello. Poi Choi Eun-hee, che donna… Se solo potessi avere gente così». E, accesa un’ennesima sigaretta (ne fumava a raffica), doveva aver pensato ciò che penserebbe qualunque bambino viziato accanto a un mucchio di balocchi: «Quasi quasi me li prendo». Inutile stare qui a descrivere i sette film che Shin e Choi girarono per Kim Jong-il nei due anni successivi al loro incontro, il tripudio che scatenarono nei cittadini nordcoreani, i premi che vinsero, le maglie che riuscirono pian piano ad allentare nella loro sorveglianza fino a trovare lo spiraglio per montare su un taxi viennese e infilarsi nell’ambasciata americana.
Di tutta questa incredibile storia però, come sempre, i veri magneti sono i dettagli meno appariscenti. Uno di questi è nascosto a pagina 310 della versione italiana del libro. Fischer virgoletta due parole evidentemente dette da Shin in una delle sue interviste: «sentimenti contrastanti». Il riassunto in otto sillabe di ciò che il ricordo di Kim Jong-il avrebbe finito per suscitare in Shin, e della lieve nostalgia che si sente trasparire nelle sue interviste ripensando a quegli anni. Eccola là, in quella semplice manciata di sillabe, la violenza della malattia di cui siamo infetti noi narratori e che ogni volta che ci fanno i complimenti ci fa sentire a disagio e venire voglia di fare gli scongiuri.
Va bene, hai finito per passare ore a chiacchierare di cinema con questo omino panciuto dalla improbabile pettinatura, quando gli hai chiesto fondi per l’esplosione di un treno lui ti ha dato un vero treno da far saltare per aria, e quando gli hai chiesto più comparse lui ti ha messo a disposizione l’esercito, ma Cristo santo, ti ha strappato alla tua vita, alla tua famiglia, ai tuoi figli, hai passato tre anni e mezzo a gambe incrociate in una sua prigione… quale nostalgia, quali contrastanti sentimenti possono restare? Per massima onestà va detto che c’è chi ha dei dubbi sulla sincerità della storia di Shin Sang-ok. C’è addirittura chi ritiene che il rapimento sia una bufala, e che Shin, disperato per non riuscire a girare più alcun film, fosse andato in Corea del Nord di sua sponte.
Documenti e testimonianze alla mano, ha l’aria questa di un’ipotesi poco credibile. La cosa divertente però è che, anche prendendo per buona l’idea della fuga volontaria, questo non fa comunque che confermare la gravità della malattia che qui vogliamo circoscrivere. Quale persona sana di mente, per la promessa di realizzare qualche film (o scrivere qualche libro, o dipingere qualche quadro), scapperebbe in una terra i cui abitanti vengono istruiti fin da bambini solo attraverso fantastiche storie sulla famiglia dei loro governanti, in cui tutto viene deciso da assurde regole da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera e in cui per un nonnulla rischi di essere rinchiuso a vita in un carcere di isolamento e forzato a gambe incrociate per diciassette ore al giorno?
Ha un sacco di ninnoli che la fanno sembrare altro, la romantica invidia che circonda artisti e narratori, ma in fin dei conti ha soprattutto a che fare con la libertà. Ed è giustificata, perché a guardare bene – se non altro i grandi – riescono a fare proprio questo: comprimere in uno spazio straordinariamente ristretto una tale dose di libertà da mutare la percezione del mondo di chi ammira una loro opera. Eccola lì la magia, quella che tutti inseguono a destra e a sinistra e che però non si può catturare. Ed ecco cosa tutti percepiscono nella vita di chi passa gran parte del proprio tempo a scornarsi con qualche forma di arte: il possibile accesso a uno scorcio di immensità.
Qualcuno nel corso dei secoli è stato accusato di solleticare i despoti, piuttosto che smettere di scrivere, dipingere, filmare, suonare. La questione, come spesso accade, potrebbe essere mal posta: il vero despota è l’arte che ci ha attirati nella sua trappola, che per il miraggio di quegli scorci di immensità ci fa sopportare qualunque stortura. C’è un meraviglioso momento in Misery, di Stephen King (più nel libro che nel film): Paul Sheldon, lo scrittore protagonista, obbligato dalla sua aguzzina, si rimette a scrivere. Per quanto costretto a letto da una pazza assassina, dopo aver riempito fogli di «fuckfuckfuck», sente risorgere tutto il piacere della storia che prende vita davanti ai suoi occhi. Potremmo dunque chiamarla così, questa malattia: sindrome di Sheldon, o di Shin. Il morbo della prigione dorata.